Insight pubblica sulla rivista "Mitteilungen der deutschen Patentanwälte"

Insight Studio Legale è lieto di annunciare che è ora online all’interno della rivista Mitteilungen der deutschen Patentanwälte l’articolo di Alessandro Merolla intitolato “La dottrina degli equivalenti nella violazione dei brevetti: la Corte di Cassazione italiana si pronuncia sulla rilevanza della prosecution history dei brevetti nel quadro giuridico europeo”.

Table of contents November issue


Esports: una sfida globale

Nel 2020 l’industria dei videogiochi ha generato solo in Italia ricavi pari a 2.2 miliardi di euro, con una crescita del 21,9% rispetto al 2019 e del 100% rispetto al 2016[1]. Nel mondo, il fatturato generato dall’industria dei videogiochi nel 2020 ha raggiunto quota 159.3 miliardi di dollari[2], di fatto arrivando quasi a superare i ricavi dell’industria del cinema e dello sport nordamericano considerati insieme[3].

Per quanto riguarda specificamente il settore degli esports, ovvero competizioni e tornei con un pubblico di spettatori in cui singoli giocatori o squadre si sfidano ai videogiochi più popolari, i ricavi generati a livello globale hanno raggiunto 947,1 milioni di dollari nel 2020 e si prevede che nel 2021 supereranno il miliardo di dollari, con un trend di crescita annuo pari al 14,5%[4]. Sulla base di recenti dati risulta inoltre che in Italia ci siano ol­tre 1,6 milioni di persone appassionate ad eventi e competizioni di esports[5].

Tali dati evidenziano come il mondo del gaming si stia sempre più consolidando quale punto fermo della realtà economica del nostro paese. Basti pensare al numero di eventi e iniziative organizzati solo nel 2021, un anno in cui l’Italia ha intrapreso un lento percorso di ripresa dopo il traumatico evento della pandemia che l’ha colpita duramente.

Infatti, in ordine cronologico, si è appena conclusa la recentissima “Milan Games Week & Cartoomics”, ovvero l’ambiziosa unione della Milan Games Week e di Cartoomics in unico evento dedicato ai videogiochi, agli esports e al digital entertainment in generale, oltre naturalmente al mondo del fumetto. Tra i tanti momenti videoludici in programma, spiccano inoltre le finali di due importanti tornei nazionali[6], nonché una serie di incontri come “in my shoes”, un'iniziativa organizzata da PG Esports per discutere e riflettere di come si possano lanciare efficacemente nuovi modelli di inclusione all'interno dell'industria del gaming.

È inoltre ancora in corso la Amazon University Esports, torneo disputato tra le varie università italiane e sponsorizzato da Amazon con in palio diversi premi, oltre alla possibilità per i vincitori di accedere successivamente ai tornei internazionali. Proprio questa iniziativa mostra come questo settore abbia finalmente attirato l’interesse anche delle istituzioni italiane che, in partnership con grandi colossi dell’industria tech, ne hanno colto il potenziale in termini di visibilità e autopromozione.

Tutti questi esempi mostrano come gli esports e in generale il variegato mondo del gaming rappresentino un settore con un altissimo potenziale economico. Ed infatti i tornei già esistenti sono numerosissimi e continuano ad aumentare anno dopo anno. Le competenze richieste per partecipare a tali tornei sono alla portata di chiunque e questo consente il continuo ingresso di nuovi giocatori, che a loro volta alimentano la platea di soggetti potenzialmente interessati all’acquisto di nuove console, oggetti virtuali da usare durante il gioco, pubblicità mirate.

Esistono inoltre moltissime tipologie di torneo, dai tornei online a quelli organizzati in location fisiche, e il loro successo dipende principalmente dalla capacità degli organizzatori di creare eventi interessanti e in grado di intrattenere giocatori e spettatori. Si pensi ad esempio alla possibilità di ospitare concerti e sfilate di moda nel contesto dei tornei, come dimostra la collaborazione tra Louis Vuitton e Riot Games in occasione dei mondiali di League of Legends del 2019.

La crescita del settore appare dunque esponenziale sotto ogni prospettiva, e i grandi investitori se ne stanno rendendo conto.

Proprio i rilevanti interessi economici in gioco rendono tuttavia evidente l’assenza di un contesto regolatorio ad hoc, che sappia tutelare da un lato gli investitori e dall’altra giocatori e spettatori. Al momento, infatti, non esiste in Italia una specifica disciplina del fenomeno in questione.

Chi si avvicina a questo settore deve pertanto affidarsi a professionisti che sappiano comprendere le singole problematiche, dai diritti d’autore sui nuovi giochi sviluppati sino alla redazione di un contratto di sponsorship.

A tal proposito, sono certamente da seguire con interesse le recenti iniziative promosse dal CONI (Comitato Olimpico Nazionale Italiano) per il riconoscimento degli esports quali discipline sportive a tutti gli effetti.

È infatti evidente che, una volta ottenuto il riconoscimento ufficiale quale disciplina sportiva, il passo successivo per gli esports sarà quello di individuare e prevedere regole condivise e concepite specificamente per tale settore. Tale coraggiosa iniziativa è stata tuttavia oggetto di critiche ed infatti è stato sollevato da più parti il dubbio di una superficiale assimilazione degli esports alle canoniche competizioni sportive, gestite da entità nazionali e soggette a regole rigide che non sembrano essere in linea con un contesto creativo e innovativo, qual è quello dei videogiochi.

Il nostro auspicio è che il legislatore colga quanto prima l’importanza di garantire un contesto regolatorio chiaro e di facile applicazione per un settore in continuo cambiamento, che sappia cioè dettare chiare direttive su ciò che è ammissibile – si pensi ad esempio al fiorente mercato delle scommesse sportive – e allo stesso tempo sappia cogliere le peculiarità del contesto tecnologico che ha permesso agli esports di diventare un fenomeno globale.

 

[1] https://www.censis.it/sites/default/files/downloads/Rapporto%20Integrale.pdf
[2] https://www.wepc.com/news/video-game-statistics/
[3] https://www.marketwatch.com/story/videogames-are-a-bigger-industry-than-sports-and-movies-combined-thanks-to-the-pandemic-11608654990
[4]  https://newzoo.com/insights/trend-reports/newzoos-global-esports-live-streaming-market-report-2021-free-version/
[5]  Vedi supra alla nota 1
[6]  PG Six Nationals Winter 2021 e Italian Rocket Championship


Direttiva Copyright: una sfida ancora aperta

Il percorso che sta portando all’attuazione della direttiva Copyright è stato lungo e pieno di battute d’arresto. Infatti, solo lo scorso 6 agosto, con due mesi di ritardo rispetto al termine ultimo fissato dalla stessa direttiva, il Consiglio dei Ministri ha approvato la bozza di Decreto Legislativo di attuazione della medesima, ora nuovamente al vaglio del Parlamento.

Uno degli elementi che ha contribuito a rallentare l’iter legislativo di questo nuovo testo è l’obiettivo che la direttiva si propone di perseguire, vale a dire quello di riequilibrare i rapporti, da un lato, tra le grandi piattaforme digitali che diffondono e aggregano contenuti creativi e, dall’altro, quelli tra produttori, autori ed esecutori di tali contenuti.

In questa prospettiva sono state quindi introdotte diverse novità, qui di seguito elencate, che hanno suscitato non poche perplessità:

  • Articolo 13: creazione di un organismo imparziale che assista i creatori di opere audiovisive nella negoziazione di accordi di licenza con le piattaforme di servizi video on demand (come Netflix, Prime Video, Disney Plus, etc.). Si tratta quindi di uno strumento a protezione degli autori e dei loro diritti che ha quale unico scopo quello di limitare l’enorme potere negoziale che le piattaforme digitali sfruttano a proprio vantaggio nei confronti di tali soggetti;
  • Articolo 14: libero utilizzo degli atti di riproduzione di opere delle arti visive che siano divenute di dominio pubblico poiché risulta scaduta la protezione del diritto d’autore. In buona sostanza, se cade in pubblico dominio un’opera delle arti visive, come ad esempio un quadro o un film, ed essa viene riprodotta in un video o con qualsiasi altra forma di comunicazione da parte di un terzo, quest’ultimo non potrà vantare alcun diritto su tale atto di riproduzione, salvo che esso costituisca una creazione intellettuale autonoma dell’autore e proteggibile come tale;
  • Articolo 15: introduzione di un nuovo diritto connesso a favore degli editori di pubblicazioni giornalistiche in ragione del quale gli stessi dovranno essere remunerati per lo sfruttamento online (riproduzione e messa a disposizione del pubblico) di tali pubblicazioni da parte delle piattaforme digitali, come ad. es. Google, Bing, Yahoo; il medesimo articolo prevede inoltre l’obbligo degli stessi editori di corrispondere una quota ragionevole dei proventi realizzati in favore degli autori delle pubblicazioni. Proprio tale equa remunerazione ha suscitato non poche perplessità e ciò in quanto il decreto in esame invece di limitarsi a prevedere il diritto degli editori di negoziare una remunerazione (come previsto dal testo della Direttiva), ha previsto l’obbligo di negoziare un equo compenso in tal senso. Peraltro, è stato previsto che qualora le parti in questione non riescano a trovare un accordo sul punto, sarà l’AGCOM (Autorità per le garanzie nelle comunicazioni) a fungere da “arbitro” nell’individuazione di tale compenso;
  • Articolo 17: obbligo dei servizi di condivisione di contenuti online, come Facebook, YouTube, Telegram, di ottenere da parte dei titolari dei diritti l’autorizzazione alla diffusione di contenuti protetti sulle loro piattaforme. I servizi di condivisione saranno dunque responsabili in prima persona per le violazioni dei diritti d’autore commesse attraverso le proprie piattaforme, a meno che non dimostrino di aver ottenuto l’autorizzazione da parte dei titolari dei diritti alla diffusione delle opere protette o quantomeno di aver compiuto “best efforts” per ottenerla o per rimuovere i contenuti non autorizzati.

L’utilizzo del termine “best efforts” per valutare se la condotta delle piattaforme sia sanzionabile o meno creerà certamente diversi problemi soprattutto di natura interpretativa; per il momento questo termine è stato tradotto nel decreto in esame come l’obbligo di adottare i “massimi sforzi”, con ciò prediligendo un’interpretazione estensiva e quantitativa dello stesso che impone e richiede quindi un maggiore sforzo e controllo da parte delle piattaforme;

  • Articolo 17: introduzione di meccanismi di reclamo e di ricorso celere per gli utenti qualora sorgano controversie in merito alla rimozione dei contenuti o alla disabilitazione degli account da parte delle piattaforme, così come obblighi informativi a carico delle piattaforme stesse in merito ai presupposti e condizioni per la rimozione dei contenuti caricati.

Le novità elencate sopra costituiscono senza dubbio una grande sfida e ciò in virtù degli interessi economici coinvolti nella questione. L’obiettivo della direttiva è certamente coraggioso ed infatti essa si propone di cambiare le regole del gioco al fine di ridistribuire il valore generato dall’attività delle piattaforme e “restituirlo” ai creatori e autori dei contenuti.

Sotto questo profilo, l’obbligo degli editori di accordarsi con le grandi piattaforme di aggregazione di informazioni come Google per ottenere un compenso per l’utilizzo delle proprie pubblicazioni è una modifica legislativa storica, ma che rischia di sancire la predominanza dei poli editoriali che posseggono le risorse economiche per sostenere tale negoziazione. Tale squilibrio risulta ancor più accentuato se si considera che l’art. 1, c. I,  lett. b 8) del decreto identifica tra i criteri di quantificazione di tale compenso quelli del maggior numero di visualizzazioni o la notorietà dell’editore stesso.

Del pari rilevante è la previsione del “massimo sforzo” a carico delle piattaforme di condivisione nella rimozione dei contenuti illeciti caricati dagli utenti. Tuttavia, la scelta da parte del legislatore italiano di preferire il criterio quantitativo nella traduzione del termine “best efforts”, che sembra far riferimento al numero e alla pervasività dei controlli effettuati, non può che far presagire un rischio di rimozione indiscriminata di contenuti da parte di algoritmi di rilevazione estremamente “sensibili”, ciò che di certo contrasta con uno degli obiettivi dichiarati dalla direttiva, ovvero quello di preservare il diritto di critica e satira degli utenti. Si sarebbe viceversa potuta adottare un’interpretazione “qualitativa” di tale obbligo e cioè di un “miglior sforzo” da parte delle piattaforme, vale a dire proporzionato alla gravità delle violazioni e alla loro diffusione.

La scelta del Governo italiano di discostarsi in parte dal testo – e dallo spirito – della direttiva è stata perciò oggetto di un lungo dibattito tanto da aver sollevato in più di un soggetto il dubbio di un eccesso di delega o del c.d. “gold plating”, vale a dire il fenomeno per cui il legislatore nazionale si spinge al di là di quanto richiesto dalla normativa europea, pur mantenendosi formalmente all’interno del perimetro della propria discrezionalità.

Si auspica tuttavia che nella versione definitiva del decreto il legislatore italiano ponga maggiore attenzione alla finalità di armonizzazione che tutte le direttive europee perseguono, circostanza che impone nel caso in esame di adottare e definire un “approccio europeo” comune al diritto d’autore digitale dei prossimi anni. Tale approccio consentirà infatti ai singoli Paesi dell’Unione di poter poi efficacemente interloquire con i c.d. “giganti del web” e finalmente assumere contro quest’ultimi una posizione di forza (che ad oggi è mancata del tutto).


Il Garante Privacy a tutela dei “rider”: quanto cose ci insegna la sanzione milionaria irrogata a Foodinho?

A prima vista, potrebbe sembrare una delle usuali sanzioni irrogate dal Garante Privacy negli ultimi tempi. In realtà  l’ordinanza di ingiunzione del Garante Privacy emessa lo scorso 10 giugno nei confronti di Foodinho costituisce un’importante opportunità per ripercorre, in meno di 50 pagine, i principi fondamentali previsti dal GDPR e dalla normativa privacy vigente in materia di trattamento dei dati dei dipendenti (e non solo).

Difatti, l’attività ispettiva del Garante Privacy - svolta in collaborazione con l’Agencia Española de Protección de Datos (AEPD) nel rispetto della procedura, ancora non del tutto conclusa, di cooperazione e assistenza reciproca prevista dal GDPR - ha avuto ad oggetto i trattamenti dei dati di circa 18 mila rider di Foodinho effettuati nel contesto di nuove tecnologie innovative basate (anche) su algoritmi automatizzati.

Emergono nel provvedimento interessanti spunti circa il rispetto dei principi fondamentali del trattamento e dei principi di privacy by design e by default, l’adozione di idonee misure di sicurezza e la predisposizione di una DPIA nel contesto di trattamenti e processi decisionali automatizzati, la corretta tenuta di un Registro del trattamento e l’individuazione dei tempi di conservazione dei dati.

Riteniamo quindi utile riassumere schematicamente qui di seguito le innumerevoli condotte illecite e infrazioni accertate nel provvedimento del Garante, riportando altresì i passaggi più rilevanti del medesimo.

***

1.  Condotta illecita: i rider non sono stati correttamente informati in merito alle concrete modalità di trattamento dei dati relativi alla loro posizione geografica, né tantomeno circa la tipologia di tutti i dati raccolti da Foodinho (ivi incluse le comunicazioni via chat/e-mail/telefono e le valutazioni espresse dai clienti).

Violazione accertata: mancato rispetto dei principi di trasparenza e correttezza del trattamento [art. 5.1, lett. a) GDPR].

Secondo il Garante: “Non rileva che i rider fossero semplicemente consapevoli dell’attività di geolocalizzazione in quanto vedono loro stessi il percorso suggerito sulla mappa dell’applicazione. Evidente è la differenza tra l’eventuale mera conoscenza della possibilità di essere geolocalizzati e la piena consapevolezza in merito allo specifico trattamento effettuato”.


2.  Condotta illecita: la società non ha fornito ai rider specifiche indicazioni in merito ai tempi di conservazione di tutti i loro dati personali; inoltre, alcuni dati di geolocalizzazione venivano conservati dalla società per periodi di tempo non congrui rispetto alle finalità.

Violazione accertata: rilascio di un’informativa privacy inidonea [art. 13.2, lett. a) GDPR], mancato rispetto del principio di limitazione della conservazione dei dati [art. 5.1, lett. e) GDPR].

Secondo il Garante: “La società ha omesso di individuare distinti tempi di conservazione dei dati riferiti ai rider oggetto di trattamento in relazione alle distinte e specifiche finalità perseguite”.


3.  Condotta illecita: la società non ha comunicato ai rider che i loro dati personali avrebbero potuto essere oggetto di trattamenti automatizzati, compresa l’attività di profilazione, preordinati all’assegnazione di un punteggio.

Violazione accertata: rilascio di un’informativa privacy inidonea [art. 13.2, lett. f) GDPR].


4.  Condotta illecita: i sistemi informatici della società sono stati configurati in modo tale da consentire l’accesso ad un numero indiscriminato di dati personali dei rider non necessari per le finalità del trattamento, senza l’indicazione di uno specifico criterio d’accesso.

Violazione accertata: mancato rispetto del principio di minimizzazione dei dati

[art. 5.1, lett. c) GDPR], mancato rispetto dei principi di privacy by design e by default [art. 25 GDPR], mancata adozione delle misure di sicurezza [art. 32 GDPR].

Secondo il Garante: “La possibilità di accesso di default ad un numero rilevante di dati personali da parte peraltro di un numero significativo di addetti alla gestione dei sistemi con ampia gamma di mansioni relative all’operatività dei rider, non consente di assicurare “su base permanente la riservatezza, l'integrità, la disponibilità e la resilienza dei sistemi”, tenuto conto dei concreti rischi occasionati dalla “perdita, dalla modifica, dalla divulgazione non autorizzata o dall'accesso, in modo accidentale o illegale, a dati personali”.


5.  Condotta illecita: la società non ha effettuato una valutazione di impatto sulla protezione dei dati nonostante l’utilizzo di tecnologie (e., una piattaforma digitale) innovative per il trattamento dei dati personali dei rider per finalità di profilazione che si basano su funzioni algoritmiche (cfr. anche successivo punto 9).

Violazione accertata: mancata predisposizione di una obbligatoria valutazione d’impatto sulla protezione dei dati [art. 35 GDPR].

Secondo il Garante: “L’utilizzo innovativo di una piattaforma digitale, della raccolta e memorizzazione di una molteplicità di dati personali relativi alla gestione degli ordini compresa la localizzazione geografica e delle comunicazioni avvenute tramite chat e email nonché della possibilità di accedere al contenuto di telefonate tra i rider e il customer care, dalla effettuazione di attività di profilazione e trattamenti automatizzati nei confronti di un numero rilevante di interessati “vulnerabili” (in quanto parti di un rapporto di lavoro), presenta “un rischio elevato per i diritti e le libertà delle persone fisiche”.


6.  Condotta illecita: la società non ha rispettato quanto previsto dall’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori nonostante effettui, attraverso una pluralità di strumenti tecnologici (la piattaforma digitale, l’app e i canali utilizzati dal customer care), trattamenti di dati personali che consentono un’attività di minuzioso controllo sulla prestazione lavorativa svolta dai rider.

Violazione accertata: mancato rispetto del principio di liceità del trattamento [art. 5.1, lett. a) GDPR], mancato rispetto dell’art. 4 della L. 300/1970.

Secondo il Garante: “Si rileva che la società effettua un minuzioso controllo sulla prestazione lavorativa svolta dai rider attraverso la geolocalizzazione del dispositivo effettuata con modalità che vanno oltre quanto necessario per assegnare l’ordine in ragione della distanza del rider dal punto di ritiro e di consegna”.

Diversamente da quanto sostenuto dalla società, la scelta del rider in merito al se e quando effettuare la prestazione non è senza conseguenze nell’ambito del rapporto di lavoro e pertanto non può definirsi “libera”.


7.  Condotta illecita: mancata indicazione nel Registro del trattamento di informazioni complete ed aggiornate in merito a tutti i trattamenti di dati personali effettuati dalla società, dei termini di conservazione dei dati e delle misure di sicurezza adottate.

Violazione accertata: tenuta di un registro del trattamento incompleto [art. 30 GDPR].


8.  Condotta illecita: non sono stati pubblicati e comunicati al Garante Privacy i dati di contatto del DPO nominato a livello di gruppo.

Violazione accertata: mancata pubblicazione e comunicazione dei dati del DPO [art. 37.7 GDPR].

Secondo il Garante: “Nel caso in cui il DPO venga nominato a livello di gruppo, resta fermo l’obbligo, in capo alle singole entità del gruppo in qualità di titolari o responsabili del trattamento, di pubblicare i dati di contatto del RPD e di comunicarli all’Autorità di controllo competente”.


9.  Condotta illecita: sono stati posti in essere trattamenti automatizzati dei dati personali dei rider tali da incidere sulla loro possibilità di scegliere se e quando svolgere l’attività lavorativa e contestualmente non sono state adottate misure idonee per consentire ai rider l’esercizio dei loro diritti attraverso canali dedicati.

È importante notare che il Garante Privacy ha focalizzato la sua attenzione sulle conseguenze negative che l’utilizzo di algoritmi simili a quelli utilizzati dalla società può comportare per i rider, arrivando ad affermare che la scelta del rider in merito al se e quando effettuare la prestazione lavorativa non è senza conseguenze nell’ambito del rapporto di lavoro e che tale prestazione, pertanto, non può definirsi “libera”.

L’assegnazione degli ordini dei clienti è infatti gestita direttamente dalla società tramite un algoritmo che individua il rider sulla base di una pluralità di parametri (vicinanza al luogo di consegna, carica della batteria del cellulare, ecc.) e premia i rider con il maggior numero di ordini accettati e consegnati.

Violazione accertata: mancata adozione delle misure previste dall’art. 22.3 GDPR [art. 22.3 GDPR].

Secondo il Garante: “Attraverso il punteggio la società valuta pertanto l’operato del rider e produce, in tal modo, un effetto significativo sulla sua persona proponendo o negando l’accesso alle fasce orarie e la relativa possibilità di effettuare la prestazione (consegna di cibo o altri beni) oggetto del contratto”.

Dall’esame del meccanismo di assegnazione del punteggio emerge, quindi, da un lato che la società effettua una attività di profilazione che incide in modo significativo sugli interessati determinando – mediante l’accesso agli slot - la possibilità di ricevere o meno ordini attraverso la piattaforma e dunque di ottenere una opportunità di impiego”.

Si ingiunge alla società di conformare al Regolamento i propri trattamenti con riferimento alla individuazione di misure appropriate volte alla verifica periodica della correttezza e accuratezza dei risultati dei sistemi algoritmici, anche al fine di garantire che sia minimizzato il rischio di errori e di conformarsi a quanto stabilito dall’art. 47-quinquies, d. lgs. n. 81/2015”.


Non Fungible Tokens: un’occasione unica, ma per chi?

Da qualche mese a questa parte, c’è una questione che suscita grande interesse tra i professionisti della finanza, Youtuber e le più famose gallerie d’arte: gli NFT, acronimo per “Non Fungible Tokens”.

Per comprendere cosa sono gli NFT, è necessario preliminarmente partire dalla tecnologia che vi sta alla base, ovvero la blockchain.

In estrema sintesi, per blockchain si intende un database, quindi un insieme di dati organizzati secondo criteri determinati, costituito da “blocchi”, cioè sequenze di informazioni individualmente identificabili, che invece di essere immagazzinato in un unico server centrale è distribuito in repliche identiche sui terminali di chiunque abbia installato il relativo protocollo informatico.

Chi accede e partecipa alla blockchain, che è aperta e liberamente consultabile da chiunque, può vedere una serie di informazioni, espresse in forma di sequenze numeriche, che acquistano valore in quanto sono certe e pressoché inalterabili. Questo risultato è ottenuto attraverso diversi livelli di protezione, primo fra tutti il fatto che per alterare un singolo blocco è necessario “riprogrammare” in sequenza l’intera catena, il che è reso ancora più difficile dalla presenza di strumenti crittografici.

L’inalterabilità dei singoli blocchi di informazioni garantisce l’affidabilità delle transazioni che si realizzano scambiando i blocchi, senza la necessità di un ente esterno che le certifichi o approvi preventivamente.

È chiaro, dunque, perché questa tecnologia ha trovato un primo largo utilizzo nell’ambito della moneta elettronica: ogni transazione effettuata su blockchain viene infatti registrata nei singoli blocchi, senza timore di furti o manipolazioni e in perfetta trasparenza.

In questo contesto, gli NFT svolgono un’ulteriore funzione, cioè permettono di trasferire la certezza attribuibile ai singoli blocchi della blockchain a contenuti informatici di diversa natura, come immagini, video, GIF. Invece di scambiare qualcosa di simile ad una moneta, che esprime un certo valore ma che può essere scambiata indifferentemente, grazie agli NFT è possibile trasferire un bene appunto infungibile (si pensi ad un pezzo da collezione).

È evidente il vantaggio che può avere una tecnologia che elimina la necessità di lunghi controlli per stabilire l’autenticità di un’informazione o contenuto digitale, soprattutto se si considera l’importanza che tuttora rivestono le banche dati digitali gestite da enti pubblici.

Perciò, alcuni artisti affermati e altri soggetti notori hanno iniziato a mettere in vendita sulle piattaforme digitali a ciò dedicate propri video, creazioni artistiche di vario genere e perfino semplici tweet, “trasformandoli” in NFT.

Il riscontro del pubblico è andato oltre ogni aspettativa, permettendo di realizzare ingenti ricavi, talvolta anche milionari[1]. In cambio, gli acquirenti hanno acquisito la titolarità di quel frammento di video, immagine etc..

Gli NFT sembrano quindi introdurre un nuovo orizzonte di possibilità per il mondo della produzione artistica, perché sono in grado di garantire nel mondo digitale, che per sua stessa definizione è un mondo di copie identiche e riproducibili a piacimento, l’esistenza di un unico originale inalterabile nel tempo.

Grazie agli NFT, i creatori di contenuti dispongono quindi di una fonte di guadagno e di uno strumento di facile utilizzo che permette loro di dimostrare la paternità delle proprie opere e allo stesso tempo di trasferirne il diritto di titolarità in capo ad altri soggetti.

Un ambito in cui gli NFT vengono già utilizzati è quello del gaming online, dove viene reso possibile ai giocatori acquistare armi o altri oggetti “unici” da utilizzare o scambiare durante l’attività di gioco. Ma è ragionevole ipotizzarne un ampio utilizzo anche nel diritto industriale, basti pensare alla possibilità di utilizzare tale strumento per dimostrare il preuso di una macchina industriale e invalidare un brevetto altrui, trasformando in NFT il relativo video di YouTube che costituisce la prova inalterabile e inattaccabile della divulgazione anteriore del macchinario sul mercato.

Vi sono però alcuni profili da approfondire e tenere in considerazione per quanto concerne tali strumenti.

Innanzitutto, l’autenticità e la titolarità del contenuto degli NFT si basano a loro volta su dichiarazioni dei soggetti interessati, che in linea di principio dovrebbero esserne gli autori o comunque i titolari, ovvero i licenziatari, dei diritti di sfruttamento economico dell’opera. Allo stato, quindi, a garantire la trasparenza circa tale effettiva titolarità, chiedendo agli utenti di registrarsi, sono le piattaforme che permettono di eseguire le transazioni, ma in linea teorica chiunque potrebbe creare un NFT che incorpori un contenuto digitale di titolarità altrui. Non vi è dunque alcuna attività di verifica a monte sull’effettiva titolarità del bene che l’utente intende trasferire mediante gli NFT. Circostanza dalla quale potrebbero scaturire contenziosi circa l’effettiva proprietà del contenuto trasferito.

Appare inoltre necessario che venga da subito chiarito il regime fiscale cui sono soggetti tali strumenti (specie per quanto concerne le eventuali plusvalenze ottenute dalle successive vendite tramite NFT), prima che diventino uno strumento di largo utilizzo nel mondo artistico.

Infine, va considerato un ulteriore profilo che riguarda segnatamente i diritti dei consumatori ed infatti quest’ultimi, dopo aver effettuato l’acquisto, non hanno la possibilità di tornare sui propri passi esercitando il diritto di ripensamento che, come noto, è previsto per gli acquisti effettuati a distanza (tra i quali rientrano naturalmente quelli online).

A parere di scrive, aldilà dell’euforia – a tratti propriamente speculativa – che si è creata attorno a questi nuovi strumenti, gli NFT rappresentano effettivamente una potenziale svolta nella nostra vita ed in particolare con riferimento a tutti quei servizi e beni che presuppongono e necessitano di una certificazione dell’autenticità delle informazioni e contenuti digitali, quali ad esempio titolarità, provenienza, diritti di utilizzo temporaneo.

Tuttavia, perché questo strumento diventi largamente utilizzato, è necessario, da una parte, che le piattaforme introducano e garantiscano un sistema efficiente di controllo circa la titolarità del bene ceduto per evitare possibili dispute in merito e, dall’altra, che il legislatore “scenda” in campo per introdurre specifiche garanzie per l’acquirente (quale appunto il diritto di ripensamento) e comunque una disciplina organica ad hoc (che preveda, tra le altre cose, un trattamento fiscale adeguato alle caratteristiche dello strumento).

[1] Famoso il caso dell’artista Beeple, che ha venduto attraverso la casa d’asta Christie’s la propria opera “Everydays: The First 5000 Days” al prezzo di oltre 69 milioni di USD, oppure quello di Jack Dorsey, il fondatore di Twitter, che ha venduto il primo tweet della storia per 2,9 milioni di USD.


Certificato Verde Europeo: libertà di muoversi in Europa in tempo di pandemia

Si chiama “Certificato verde” europeo, si legge “Pass Covid-19”. Ha lo scopo di facilitare la circolazione dei cittadini all’interno dell’Unione Europea, nonché di contribuire alla limitazione della diffusione del virus Sars-CoV-2.

Proviamo a comprendere quali sono le caratteristiche del certificato verde, chi potrà rilasciarlo e quali garanzie sono previste per la tutela dei dati personali, anche di natura sensibile, in esso contenuti.

1. Premessa

Lo scorso 17 marzo 2021, la Commissione Europea ha proposto l’introduzione di un “Certificato verde” europeo che ha come scopo quello di consentire, durante la pandemia da Covid-19, l'esercizio del diritto di libera circolazione dei cittadini previsto dall’art. 21 del Trattato sul funzionamento dell'UE (TFUE). Esso verrebbe rilasciato da ogni Stato Membro, in formato digitale e/o cartaceo ed avrebbe lo stesso valore giuridico in tutta l’UE.

Tuttavia, parlare di “Certificato verde” (al singolare) non è corretto. Infatti, come previsto nella Proposta di Regolamento europeo pubblicata dalla Commissione[1], sono tre le diverse tipologie di certificati che potranno essere rilasciati:

i. “Certificato di vaccinazione”: attesta che una persona ha ricevuto un vaccino contro il Covid-19 autorizzato all’immissione in commercio nell’UE;

ii. “Certificato di test”: attesta che una persona ha effettuato un test Covid-19, antigenico o molecolare (purchè non autodiagnostico), che ha dato risultato negativo;

iii. “Certificato di guarigione”: attesta che una persona che aveva contratto il Covid-19 ne è successivamente guarita.

Ogni certificato sarà redatto nella lingua ufficiale dello Stato Membro da cui è rilasciato, oltre che in lingua inglese, sarà gratuito e sarà emesso dalle istituzioni/autorità debitamente autorizzate a tale scopo (si pensi, ad esempio, ad ospedali, centri di diagnosi/test o all’autorità sanitaria stessa).

2. Come funziona il certificato?

Il certificato possiede un “QR (Quick Response) code” contenente le informazioni essenziali relative al suo titolare, una firma digitale che ne impedisce la falsificazione ed un sigillo che ne garantisce l'autenticità.

Nel momento in cui un cittadino europeo farà ingresso in uno Stato membro diverso da quello di appartenenza, le istituzioni e/o autorità competenti di tale Stato procederanno alla scansione del QR code presente sul certificato ed alla verifica della firma digitale in esso contenuta. Tale verifica della firma digitale avverrà mediante confronto della stessa con le chiavi di firma possedute dalle istituzioni/autorità dello Stato di destinazione, le quali saranno conservate in una banca dati protetta di ciascuno Stato.

Sarà inoltre reso disponibile, a livello comunitario, un unico “gateway” gestito dalla Commissione, mediante il quale le firme digitali dei certificati verdi potranno essere verificate in tutta l'UE.

3. Il trattamento dei dati personali contenuti nel certificato

Ciascun certificato – che sia di vaccinazione, di test o di guarigione – conterrà al proprio interno una serie di informazioni relative alla persona cui si riferisce quali ad esempio: nome, cognome, data di nascita, data di vaccinazione, risultato del test antigenico/molecolare effettuato, malattia da cui si è guariti. Si tratta di informazioni che rientrano nella definizione di “dati personali” di cui all’art. 4 del Regolamento 679/2016 (“GDPR”) in quanto relative ad una persona fisica identificata e, per questa ragione, devono essere trattate nel rispetto dei principi e delle garanzie previste da tale Regolamento.

A tal riguardo, è opportuno sintetizzare i contenuti più importanti del parere del 31 marzo 2021 che il Comitato Europeo per la protezione dei dati (“EDPB”) ed il Garante Europeo per la protezione dei dati (“EDPS”) hanno fornito alla Commissione UE in merito al certificato verde.

a) Il trattamento dei dati personali contenuti nei certificati dovrebbe essere effettuato solo al fine di comprovare e verificare lo stato di vaccinazione, di negatività o di guarigione del titolare del certificato e, conseguentemente, di agevolare l'esercizio del diritto di libera circolazione all'interno dell'UE durante la pandemia.

b) Al fine di agevolare l’esercizio dei diritti privacy da parte degli interessati, sarebbe opportuno che ogni Paese rediga e renda pubblico un elenco dei soggetti autorizzati a trattare tali dati in qualità di titolari o responsabili e di coloro che riceveranno i dati stessi (oltre alle autorità/istituzioni di ciascuno Stato membro competenti al rilascio dei certificati, già individuate quali “titolari del trattamento” dalla proposta di Regolamento).

c) La base giuridica del trattamento dei dati personali presenti nei certificati dovrebbe essere costituita dall’adempimento di un obbligo di legge (art. 6, co. 1, lett. c GDPR) e da “motivi di interesse pubblico rilevante” (art. 9, co. 2, lett. g GDPR).

d) Nel rispetto del principio di “limitazione della conservazione” dei dati previsto dal GDPR, la conservazione degli stessi dovrebbe essere limitata a quanto necessario per il perseguimento delle finalità del trattamento (e. facilitare l'esercizio del diritto alla libera circolazione nell'UE durante la pandemia da Covid-19) e, in ogni caso, alla durata stessa della pandemia, il cui termine sarà dichiarato dall’OMS.

e) Non sarà in alcun modo consentita la creazione di banche dati a livello comunitario.

4. Considerazioni critiche e conclusioni

Al di là della portata innovativa della proposta di Regolamento, emergono alcuni aspetti che meritano di essere ulteriormente approfonditi o, quantomeno, chiariti dal legislatore europeo per garantire la corretta applicazione della nuova normativa europea.

a. Emissione e rilascio dei certificati

La proposta di Regolamento prevede che i certificati siano “rilasciati automaticamente o su richiesta degli interessati” (cfr. Considerando 14 e artt. 5 e 6). Ci si domanda, quindi, come altresì evidenziato dall’EDPB e dall’EDPS, se un certificato:

i. sarà generato e rilasciato all’interessato solo se espressamente richiesto da quest’ultimo;
ovvero se, al contrario
ii. sarà generato automaticamente dalle autorità competenti (ad es., all’esito della vaccinazione) ma consegnato all’interessato solo su espressa richiesta.

b. Il possesso di un certificato non impedisce agli Stati membri di imporre eventuali restrizioni all’ingresso

La proposta di Regolamento prevede che uno Stato membro possa comunque decidere di imporre al titolare di un certificato determinate misure restrittive (quali, ad esempio, l’obbligo di sottoporsi ad un regime di quarantena e/o a misure di auto-isolamento) nonostante l’esibizione del certificato stesso, purché tale Stato indichi i motivi, la portata ed il periodo di applicazione delle restrizioni, compresi i dati epidemiologici pertinenti a sostegno delle stesse.

Ci si domanda, tuttavia, se tali restrizioni e le loro condizioni di applicabilità saranno definite a livello europeo ovvero se l’individuazione delle stesse sarà demandata a ciascuno Stato, accettando - in quest’ultimo caso - il rischio di vanificare il tentativo di unificazione normativa perseguito dalla proposta di Regolamento.

c. La durata temporale del certificato

La proposta di Regolamento prevede che solo il “Certificato di guarigione” debba contenere anche l’indicazione del periodo di validità. E’ lecito domandarsi, quindi, quale sia la durata degli altri due certificati (“di vaccinazione” e “di test”) e come sia possibile garantire la veridicità di quanto attestato da un certificato dopo che sia trascorso un determinato lasso di tempo dalla data di rilascio (basti pensare, ad esempio, ai diversi casi di positività riscontrati dopo la somministrazione di un vaccino o ai cd. “falsi negativi/positivi”).

d. Gli obblighi del titolare del certificato

Quali obblighi è tenuto a rispettare il titolare di un certificato? Ad esempio, qualora sia stato rilasciato un certificato che attesti lo stato di negatività al Covid-19 e, a distanza di qualche mese, il titolare scopra di essere positivo, egli ha l’obbligo di rivolgersi alle competenti autorità/istituzioni del proprio Stato al fine di far revocare il certificato? E ancora: nell’ipotesi in cui il titolare tenti di utilizzare un certificato (non veritiero) per l’ingresso in uno Stato terzo, a quali sanzioni andrebbe incontro?

e. La protezione dei dati personali

La nuova proposta di Regolamento demanda alla Commissione il compito di adottare, mendiante atti di esecuzione, specifiche disposizioni finalizzate a garantire la sicurezza dei dati personali contenuti nei certificati.

Tuttavia, considerata la natura estremamente sensibile dei dati in oggetto, la Commissione chiederà anche un parere preventivo alle Autorità per la protezione dei dati personali dei singoli Stati membri? Sarebbe forse utile garantire, anche in questo contesto e con specifico riferimento alla documentazione privacy da fornire agli interessati prima del rilascio dei certificati, un approccio europeo pressochè unanime tale da impedire l’eventuale frammentazione delle garanzie previste dal Regolamento 679/2016 (“GDPR”).

In conclusione, si tratta di una proposta che se attuata con le dovute attenzioni potrebbe contribuire ampiamente al ritorno ad una vita quasi normale; si ha tuttavia il timore che in assenza di una disciplina particolarmente dettagliata in materia sia alto il rischio di rendere ancora più complessi gli spostamenti transfrontalieri, anche considerato che molto probabilmente ogni Stato adotterebbe ulteriori misure relative alla disciplina di tale certificato.

[1] https://eur-lex.europa.eu/resource.html?uri=cellar:38de66f4-8807-11eb-ac4c-01aa75ed71a1.0024.02/DOC_1&format=PDF.


Vaccino Astra Zeneca: soluzioni giuridiche per problemi tecnici

I ritardi sulle consegne delle dosi di vaccino Astra Zeneca stanno sollevando diversi dubbi fra l’opinione pubblica (e tra gli stessi politici) circa la possibilità di rispettare i piani di vaccinazione della popolazione previsti dai Governi.

Per queste ragioni, da più parti si stanno valutando soluzioni alternative e, di recente, in Italia il dibattito sembra essersi spostato sui brevetti che proteggono i vaccini e che, da molti, vengono considerati un ostacolo alla salute pubblica.

In effetti, i brevetti, come gli altri titoli di proprietà intellettuale, non rappresentano altro che diritti di monopolio attribuiti al loro titolare per un periodo temporale ventennale, durante il quale possono essere sfruttati commercialmente.

Come noto, la ragion d’essere di questi “diritti di esclusiva” risiede in un maggior benessere per la collettività: premiando gli inventori per un periodo di tempo limitato, si ottiene da parte loro la diffusione della conoscenza, che altrimenti verrebbe tenuta nascosta il più possibile.

L’emergenza sanitaria globale impone tuttavia una riflessione e cioè se i diritti di esclusiva sul brevetto possano essere bypassati dalla necessità di ottenere i vaccini protetti da privativa in tempi rapidissimi.

In altri termini, bisogna domandarsi se in questa situazione di assoluta necessità – dove ad essere in pericolo è la salute dei cittadini – sia ragionevole persistere nel curare esclusivamente gli interessi del titolare del brevetto piuttosto che quelli della collettività.

Si prenda ad esempio il caso del noto vaccino Astra Zeneca, di cui la società titolare non è riuscita ad assicurare la produzione nei tempi e nelle quantità inizialmente previste.

Per tali ragioni, in Italia si è ipotizzato di concedere in via straordinaria ad aziende attrezzate allo scopo il diritto di produrre tale vaccino pur non essendo titolari dei brevetti, a fronte ovviamente di un corrispettivo economico a titolo di royalty.

Tale soluzione consentirebbe di ovviare ai possibili inadempimenti delle società farmaceutiche che in ogni caso riceverebbero compensi economici per le ricerche e l’attività inventiva svolta.

Più in generale, le proposte avanzate e discusse sono state le seguenti:

  1. imporre alle grandi multinazionali titolari dei brevetti di concedere “licenze obbligatorie” alle società in grado di produrre i vaccini con qualità analoga;
  2. sospendere l’efficacia del brevetto, di modo che chiunque possa servirsi delle conoscenze da esso protette per produrre vaccini fino al perdurare dell’emergenza sanitaria;
  3. espropriare i titolari dei brevetti sui vaccini rendendoli proprietà dello Stato, dietro equo indennizzo.

Tali proposte sono supportate da diverse basi giuridiche, in primo luogo il trattato internazionale conosciuto come “Accordo Trips”[1], che prevede la facoltà per gli Stati aderenti di imporre licenze obbligatorie per la fabbricazione e l’esportazione di medicinali nei Paesi che non dispongono di sufficienti capacità di produzione in proprio.

La difficoltà di utilizzare questo strumento risiede nel fatto che è stato pensato per fornire supporto a Paesi in via di sviluppo, senza le risorse interne per l’acquisto di costosi farmaci esteri (famoso il caso del farmaco contro l’HIV in Africa).

Più difficile sembrerebbe essere la sua applicazione per Paesi come l’Italia, che sta sviluppando un vaccino in proprio e che ha le risorse per acquistare i vaccini prodotti all’estero.

Sul punto vale anche la pena di menzionare l’art. 141 del codice della proprietà industriale italiano[2], che prevede la facoltà dello Stato italiano di espropriare o comunque utilizzare brevetti o domande di brevetto per ragioni di pubblica utilità. Con il termine “pubblica utilità” sembra infatti potersi ricomprendere la crisi pandemica in corso.

Se l’ipotesi di una espropriazione del brevetto appare tuttavia sproporzionata o comunque un’eccessiva compressione dei diritti del titolare del brevetto, l’ipotesi di licenze obbligatorie concesse in favore di aziende terze ci pare una strada ragionevole e percorribile per sopperire alle diverse vicissitudini descritte sopra.

Va però tenuto in considerazione anche l’aspetto pratico – e quindi tecnico – della produzione dei vaccini contro il Covid 19. Esistono infatti diverse modalità e processi di produzione del vaccino, cui corrisponde una diversa efficacia (ad esempio, tra i vaccini già approvati dalle autorità competenti, Pfizer e Moderna garantiscono un’efficacia del 94-95 %, mentre Astra Zeneca garantisce l’82,4 %)[3], così come una diversa attitudine a fornire copertura anche dalle varianti del virus.

Allo stesso tempo, i vaccini non sono oggetto di un singolo brevetto, ma di diversi brevetti connessi tra di loro che spesso appartengono a soggetti diversi. Ne deriva che le aziende terze dovrebbero ottenere licenze obbligatorie da una vasta platea di titolari, con conseguenti maggiori difficoltà organizzative.

Inoltre, è chiaro che alla base dei brevetti in questione vi è un complesso know how riservato, che dovrebbe essere trasferito e divulgato in tempi brevi dai titolari in favore delle aziende licenziatarie affinché il vaccino possa essere prodotto; tutto questo comporterebbe comunque un allungamento delle tempistiche di produzione, nonché ulteriori difficoltà organizzative.

Alla luce di quanto sopra, le strada suggerita e discussa della licenza obbligatoria appare senz’altro percorribile per risolvere la scarsità e i relativi ritardi nella consegna dei vaccini ma, a parere di scrive, c’è bisogno di una condotta collaborativa tra le società titolari e i licenziatari, piuttosto che un aperto conflitto tra le stesse, il tutto allo scopo di salvaguardare la prioritaria salute pubblica.

Peraltro, l’ipotesi discussa sarebbe immediatamente operativa senza la necessità di un intervento legislativo ex novo, che spesso richiede la convergenza delle forze politiche (frequentemente non facile da attuare). Tale circostanza è certamente un incentivo da sfruttare per raggiungere un risultato desiderabile per l’intera collettività in tempi rapidi.

[1] Art. 31 e 31bis del citato Accordo, nella sua formulazione aggiornata al Protocollo del 6 dicembre 2005, entrato in vigore il 23 gennaio 2017.
[2] D.lgs. n. 30 del 2005 e successive modifiche.
[3] https://www.aifa.gov.it/web/guest/domande-e-risposte-su-vaccini-mrna; https://www.aifa.gov.it/domande-e-risposte-su-vaccini-vettore-virale.


Internet of Things e Intelligenza Artificiale: la fine o l’inizio dei brevetti essenziali?

La pandemia COVID-19 ha imposto a tutti una quarantena forzata e quindi di riorganizzare la vita personale e lavorativa direttamente dalla propria dimora.

Tutto ciò non ha fatto altro che dimostrare e aumentare la nostra preoccupante dipendenza da strumenti informatici e nuove tecnologie, il cui utilizzo nel 2020 è aumentato in maniera esponenziale in ogni settore, anche in quelli dove si faticava ad immaginarne l’utilizzo (si pensi ad esempio alle udienze giudiziali svolte in teleconferenza ovvero la didattica a distanza, ecc.).

In maniera analoga stiamo inoltre assistendo ad una sempre maggiore integrazione digitale di oggetti, dispositivi, sensori e beni di uso quotidiano che oramai fanno parte integrante della nostra vita quotidiana.

Svolta questa dovuta premessa, c’è a questo punto da domandarsi quale impatto avrà l’attuale rivoluzione tecnologica nel settore della proprietà intellettuale e, segnatamente, nell’ambito dei brevetti.

A nostro avviso gli attuali cambiamenti porteranno certamente giovamento al settore delle invenzioni; infatti, per quanto qui d’interesse, grazie al ruolo decisivo dell’intelligenza artificiale e internet of things, è lecito attendersi un considerevole incremento di depositi di brevetti cd. essenziali.

Come noto, i brevetti essenziali – vale a dire “Standard Essential Patent” (SEP) – sono brevetti che proteggono tecnologie appunto essenziali per l’implementazione di standard riconosciuti da organismi di normazione.

Tali brevetti sono già presenti nella nostra vita più di quanto noi immaginiamo, ed infatti li usiamo per chiamare o inviare messaggi con il nostro smartphone, per inviare file tramite e-mail, per ascoltare i brani della nostra playlist o semplicemente mentre guardiamo le serie TV preferite, seduti sul divano di casa.

Gli standard più noti ad oggi sono forse “Bluetooth”, “WiFi” e “5G”, ma come detto il compimento di una delle azioni di cui sopra coinvolge decine di standard a loro volta già protetti dai citati brevetti.

La Commissione Europea in una recente comunicazione dello scorso novembre rivolta al Parlamento Europeo ha evidenziato il ruolo cruciale dei brevetti essenziali nello sviluppo della tecnologia 5G e dell’Internet of Things, rilevando, ad esempio, che solo per gli standard di connettività mobile sono state dichiarate all'ETSI (l'Istituto Europeo delle norme di telecomunicazione) più di 25.000 famiglie di brevetti.

Nella medesima comunicazione la Commissione rilevava tuttavia le difficoltà che alcune imprese continuano ad incontrare nel trovare con i titolari dei brevetti essenziali un accordo sulla concessione di licenze e il conseguente crescente numero di controversie tra titolare e utilizzatore.

Come noto, infatti, un brevetto viene definito essenziale a seguito di una sorta di autodichiarazione del titolare che dichiara che il suo brevetto è appunto necessario ed essenziale per l’applicazione di uno standard e quindi, mediante tale dichiarazione, si rende disponibile a concederlo in licenza a chi intende utilizzare lo standard in questione a condizioni cd. “FRAND” (“Fair, Reasonable And Non-Discriminatory”), vale a dire a condizioni di licenza eque, ragionevoli e non discriminatorie.

Nella pratica accade quindi che il titolare di un brevetto essenziale, una volta accertata la presenza sul mercato di un prodotto che utilizza un certo standard, si rivolge al suo produttore o distributore per chiedere di sottoscrivere un contratto di licenza a condizioni “FRAND”.

Il soggetto utilizzatore a quel punto non ha altra scelta se non quella di accettare la licenza alle condizioni proposte dal titolare del brevetto; infatti, a differenza dei brevetti non essenziali dove evidentemente l’utilizzatore può ricercare soluzioni alternative che non violino il brevetto in questione, per i brevetti essenziali ciò non è possibile in quanto si tratta di standard utilizzati per conformarsi a norme tecniche su cui si basano milioni di prodotti e che consentono quindi l’interoperabilità degli stessi.

Inoltre, investire nello sviluppo di uno standard alternativo è assai oneroso (si pensi ad esempio allo sviluppo di un’alternativa allo standard “Bluetooth”), ma – anche assumendo lo sviluppo di uno standard alternativo - bisognerebbe poi convincere i consumatori a “passare” al nuovo standard, sostituendo i vecchi dispositivi con i nuovi.

Il rischio che una tale situazione possa provocare distorsioni del mercato e soprattutto abusi da parte dei titolari dei brevetti essenziali è quindi molto alto; i titolari dei brevetti essenziali possono infatti decidere le sorti di un prodotto di un determinato mercato in quanto vincolano tutti gli operatori dello stesso ad utilizzarlo a fronte del pagamento di una royalty.

Proprio al fine di contemperare gli interessi in gioco, la nota sentenza della Corte di Giustizia nel caso “Huawei v. ZTE” (C-170/13 del 16.07.2015) era intervenuta già nel 2015 per prevedere in capo al titolare dei brevetti essenziali una serie di obblighi, vale a dire, tra gli altri, a) l’obbligo di garantire sempre condizioni cd. FRAND in favore del potenziale licenziatario; b) l’obbligo del titolare del brevetto SEP di avvisare preventivamente l’utilizzatore dello standard protetto indicando il brevetto che sarebbe stato violato e specificando in quale modo sarebbe stato contraffatto e, in caso l’utilizzatore si rifiuti di collaborare, adire le autorità giudiziali.

In presenza di tali condizioni, ad opinione dei Giudici della Corte, non sussisterebbe da parte del titolare del brevetto essenziale alcun abuso di posizione dominante sul mercato sanzionabile ai sensi dell’art. 101 TFUE.

La realtà è però ben diversa in quanto i titolari dei brevetti essenziali continuano ad avere un eccessivo potere negoziale nei confronti dell’utilizzatore dello standard protetto. Infatti, come detto, l’essenzialità o meno di un brevetto dipende da un’autodichiarazione resa dallo stesso titolare del brevetto che peraltro fonda “de facto” una presunzione di essenzialità del brevetto; tale circostanza agevola ulteriormente i titolari nei giudizi in quanto l’onere della prova viene posto a carico del presunto contraffattore che dovrà dimostrare la non interferenza o la non essenzialità.

Aggiungasi che ad oggi non esistono norme a protezione della parte debole, vale a dire l’utilizzatore del brevetto essenziale, ed infatti non vi sono ad esempio parametri di riferimento che definiscano con chiarezza le condizioni eque, ragionevoli e non discriminatorie. In altri termini, l’utilizzatore non è quindi in grado di verificare se le condizioni proposte dal titolare siano effettivamente “FRAND” e quindi ha due opzioni: accettare tali condizioni o ribellarsi e intraprendere un contenzioso nei confronti del titolare.

Malgrado la questione dei brevetti essenziali sia stata oggetto di diverse pronunce negli anni e di specifici richiami da parte della Commissione Europea, diverse questioni restano ancora aperte e necessitano di un immediato intervento da parte del legislatore sia per rafforzare la certezza giuridica sia per ridurre il crescente numero di controversie in materia.

Ad avviso di chi scrive appare ad esempio necessario creare ed istituire un organo indipendente in grado di verificare a priori il carattere essenziale di un brevetto prima che esso venga protetto, nonché prevedere norme specifiche, efficaci ed eque che regolino la concessione di licenze per brevetti essenziali.

Peraltro, in ragione della rivoluzione tecnologica in atto e del conseguente crescente utilizzo di tali brevetti, è auspicabile che tali riforme siano portate a compimento in tempi rapidi.


Facebook ancora nel mirino dell’AGCM: una sanzione pecuniaria può essere la soluzione?

Il 17 febbraio 2021 l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (“AGCM”) ha irrogato una sanzione pari a 7 milioni di euro nei confronti di Facebook Ireland e della sua controllante Facebook Inc. per non aver ottemperato ad un precedente provvedimento, sempre dell’AGCM, del 29 novembre 2018 in virtù del quale la società di Menlo Park era già stata condannata al pagamento di una sanzione pecuniaria da 5 milioni di euro per non aver informato i propri utenti che i loro dati personali sarebbero stati utilizzati per scopi commerciali.

Tale ulteriore provvedimento, che non rappresenta altro che “la sanzione della sanzione”, ci induce necessariamente a riflettere sulla reale forza coercitiva delle sanzioni pecuniarie emesse dall’AGCM, oltre che sulla scelta di quest’ultima di insistere con sanzioni analoghe a quelle già emesse nel 2018 nonostante l’accertata inosservanza – e quindi inefficacia - delle stesse (di questo argomento ne avevamo già parlato in un nostro precedente articolo, disponibile qui).

Che forse sia quindi giunto il momento di riadattare il contenuto e la portata dei provvedimenti sanzionatori a tutela del mercato e della libera concorrenza, specialmente quando rivolti ai giganti del web? Si potrebbe, ad esempio, ipotizzare un provvedimento dell’Autorità che blocchi temporaneamente i servizi online offerti sino a quando la società non regolarizzi la propria posizione? O alla rimozione temporanea di un’applicazione dall’App/Play Store con conseguente impossibilità, per la società, di acquisire nuovi utenti? O, ancora, a sanzioni pecuniarie proporzionate al fatturato totale annuo di una società o del suo gruppo (in stile, “GDPR”)?

Ad avviso di chi scrive, una soluzione concreta non può che risiedere nel corretto bilanciamento degli interessi in gioco: da un lato, quelli privati delle multinazionali che tramite i loro social network acquisiscono una enorme quantità di dati personali (e, quindi, di “denaro”); dall’altro, quelli degli utenti del web che utilizzano quotidianamente le principali piattaforme social, spesso non solo per “svago” ma anche per ragioni professionali e di business.