IL CASO

Il 30 novembre 2020 l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM) ha sanzionato per 10 milioni di euro le società Apple Distribution International e Apple Italia S.r.l. (di seguito “Apple”) per aver diffuso messaggi promozionali tramite i quali si esaltava la resistenza all’acqua di diversi modelli di iPhone, omettendo tuttavia di specificare che detta proprietà risultava vera solamente in presenza di particolari circostanze non corrispondenti alle normali condizioni d’uso da parte dei consumatori (pratica commerciale cd. “ingannevole[1]”).

Inoltre, tali messaggi promozionali risultavano contraddittori a causa della contestuale presenza del seguente disclaimer “La garanzia non copre i danni provocati da liquidi”. Di fatto, nella fase post-vendita veniva negata da Apple la riparazione degli iPhone danneggiati a causa dell’introduzione di acqua o di altri liquidi, ostacolando quindi l’esercizio del diritto di garanzia riconosciuto dal Codice del Consumo (pratica commerciale cd. “aggressiva[2]”).

QUALI CONSEGUENZE SULL’IMPRESA SANZIONATA

La presente vicenda ci consente di focalizzare l’attenzione sulle conseguenze che derivano in capo all’impresa destinataria di un provvedimento di un’autorità (nel caso in esame, l’AGCM).

Innanzitutto, tale provvedimento non può che avere ripercussioni sull’assai complesso rapporto di fiducia che si viene ad instaurare tra impresa e consumatori.

È noto infatti che il marchio d’impresa suggerisce al consumatore, proprio all’atto d’acquisto, che il prodotto contraddistinto da detto segno origina da tale azienda.

Fra il consumatore e l’impresa si viene dunque a costruire un rapporto di tipo psicologico ed emotivo che in quanto tale è facilmente condizionabile da circostanze esterne.

Ed è esattamente in questo delicato contesto che si inserisce il provvedimento sanzionatorio dell’AGCM nei confronti di Apple, giacché esso rende vulnerabili propri i presupposti di tale relazione, vale a dire fiducia ed affidabilità.

Non bisogna infatti dimenticare che la base di tale relazione è di tipo mnemonico e cioè si fonda sul ricordo (positivo) che il consumatore richiama e conserva rispetto ad un’azienda ed ai suoi prodotti e servizi. Il provvedimento sanzionatorio dell’autorità colpisce precisamente tale ricordo in quanto, tra le altre cose, si propone di mettere in guardia il consumatore per il futuro.

È facile infatti immaginare che oggigiorno la notizia di tale provvedimento venga diffusa rapidamente tramite i social network e raggiunga dunque una considerevole fetta dei clienti dell’impresa punita. Su questo punto è certamente condivisibile la scelta dell’AGCM di obbligare Apple ad altresì pubblicare il provvedimento nella sezione del proprio sito web dedicata alla vendita degli iPhone, sotto la dicitura “Informazioni a tutela del consumatore”.

Questo ha per l’impresa venditrice effetti più gravi rispetto ad una sanzione economica poiché lede la sua immagine e suggerisce al consumatore di prestare maggiore attenzione qualora intenda acquistare ulteriori prodotti provenienti dall’azienda colpita dal provvedimento.

Tutto questo si traduce per l’azienda in ulteriori costi “invisibili” e cioè costi che la stessa azienda dovrà sostenere nei mesi successivi al fine di ricostruire il rapporto di fiducia/affidabilità con il proprio cliente (cd. “pubblicità ricostruttiva”). Senza qui voler dimenticare le attività correttive (e relativi costi) che, a seguito del monito ricevuto dall’Autorità, l’azienda sanzionata dovrà porre in essere in relazione ai prodotti già presenti sul mercato o in procinto di esserlo.

Sotto diverso profilo, il provvedimento dell’AGCM è anche portatore di una sanzione pecuniaria.

Nel caso in esame, la sanzione irrogata, pur costituendo il massimo edittale previsto dalla normativa vigente, rappresenta tuttavia meno del 5% del fatturato globale realizzato dal gruppo Apple nell’esercizio concluso a settembre 2019, pari a circa 231,57 miliardi di euro.

Ci si domanda quindi se tale sanzione possa avere un concreto effetto deterrente.

La risposta non può che essere negativa. Bisogna però soffermarsi su un diverso aspetto e cioè sul criterio di determinazione del quantum della sanzione pecuniaria.

Se l’asserita resistenza all’acqua degli Iphone fosse stata la ragione unica che ha determinato il consumatore ad acquistare un prodotto Apple piuttosto che di un rivale, sarebbe corretta una sanzione di soli 10 milioni di euro?

Evidentemente no ed infatti in tale specifico caso bisognerebbe tenere in considerazione l’intero costo di un iPhone (circa 1.000 euro) e applicare perlomeno una percentuale a titolo di sanzione sul fatturato generato dalla vendita (scorretta) dello stesso nel territorio in cui opera l’autorità competente.

Ne deriva che un criterio predeterminato di quantificazione di una sanzione – qual è quello previsto dal Codice del Consumo per le pratiche scorrette – è di per sé insufficiente a valutare tutte le circostanze del caso e di conseguenza a punire appropriatamente una condotta commercialmente scorretta di un’impresa.

CONSIDERAZIONI FINALI

La sensazione è che le imprese, specie quelle con fatturati da capogiro, stiano sottovalutando l’importanza di mantenere una maggiore trasparenza nei confronti del mercato, forse nell’errata convinzione che talune pratiche passino inosservate. In realtà, come visto, esse hanno conseguenze piuttosto negative sul rapporto con la propria clientela. Peraltro, in settori dove la concorrenza è agguerrita, il rischio che il cliente scelga il concorrente è sempre dietro l’angolo.

La disciplina sanzionatoria potrebbe quindi non essere sufficientemente severa da sortire gli effetti deterrenti sperati. Certo è che ad essere penalizzato è lo stesso consumatore che non riceve una tutela e protezione adeguata.

E’ ragionevole quindi domandarsi l’utilità di forme sanzionatorie diverse da quelle pecuniarie perché vi sia una concreta tutela degli interessi del consumatore.

Potrebbe dunque essere opportuno valutare l’introduzione di diverse misure restrittive (che abbiano anche una portata pratica e che siano proporzionate alle quote di mercato detenute dall’azienda) nei confronti delle aziende responsabili di porre in essere pratiche commerciali scorrette.

[1] Le pratiche scorrette si definiscono ingannevoli quando rappresentano elementi e/o caratteristiche di un prodotto non corrispondenti al vero.
[2] Le pratiche scorrette si definiscono aggressive quando consistono in molestie, coercizioni o altre forme di indebito condizionamento psicologico dei consumatori.