Ambush Marketing: l’evoluzione e le incertezze in vista di Milano Cortina 2026

In occasione di eventi di un certo rilievo mediatico, di solito di natura sportiva, le imprese che sono solite investire in pubblicità si contendono partnership commerciali con l’organizzatore dell’evento, sostenendo sì ingenti investimenti ma aspettandosi anche un buon ritorno economico e d’immagine.

Chiaro è che, in virtù dei più basilari principi della concorrenza, è comunque consentito anche alle aziende che non hanno raggiunto (o semplicemente non hanno voluto) alcun accordo di partnership commerciale con l’organizzatore, di pubblicizzare i propri prodotti anche alludendo all’evento (c.d. “smart marketing” o “real time marketing”). Tali iniziative promozionali incontrano tuttavia un limite e diventano illecite qualora l’impresa si sostituisca agli occhi del pubblico allo sponsor o al licenziatario ufficiale, danneggiando così non solo l’impresa che ha investito per assicurarsi la partnership ma anche l’organizzazione dell’evento che è costretto conseguentemente ad abbassare i corrispettivi delle licenze e delle sponsorizzazioni per renderle più allettanti.

In questi casi si parla di “Ambush Marketing”, tema più che mai attuale visto l’avvicinarsi delle Olimpiadi Invernali Milano Cortina 2026. Come sempre, quando si tratta di grandi eventi sportivi, gli Stati coinvolti nell’organizzazione provvedono a disciplinare gli aspetti più spinosi con normative ad hoc; il Governo italiano, per l’occasione, ha emanato il d.l. n. 16/2020 (c.d. “Decreto Ambush Marketing”), convertito dalla legge n. 31/2020, che ha portata generale e non è limitato ai soli Giochi Olimpici del 2026.

In merito a tale pratica commerciale, bisogna innanzitutto precisare che ad oggi non esiste una precisa definizione normativa di ambush marketing; tale espressione ha origine anglosassone ed è stata coniata per la prima volta da Jerry Welsh in occasione dei Giochi olimpici di Los Angeles del 1984, quando la multinazionale statunitense Kodak decise di sponsorizzare programmi televisivi relativi alle Olimpiadi, accreditandosi al pubblico come sponsor ufficiale dell’evento pur non essendolo, a differenza della concorrente Fujifilm.

Con tale espressione ci si riferisce dunque a tutte quelle situazioni in cui un’impresa tenta di sfruttare a proprio vantaggio un evento che ha particolare visibilità, senza essere tuttavia legata all’organizzazione dell’evento.

Talvolta il c.d. ambusher si presenta come sponsor o licenziatario ufficiale dell’evento attraverso l’uso di segni, simboli, marchi ad esso riconducibili. In Italia, è stato il Tribunale di Venezia nel 2005 a riconoscere per la prima volta questo illecito, inibendo alla celebre azienda veneta Benetton l’uso del termine “olympic” sui propri capi di abbigliamento introdotto guarda caso in prossimità dei Giochi Olimpici invernali Torino 2006.

Le modalità con cui si concretizza l’ambush marketing sono però numerose e solo raramente si spingono al punto di richiamare espressamente i segni distintivi (di solito noti) riconducibili all’evento. Più sovente l’ambush marketing si manifesta in modo indiretto e velato e si realizza attraverso l’intensificazione da parte di un’azienda degli investimenti pubblicitari in concomitanza, o in prossimità, della manifestazione, al fine di diluire la sponsorizzazione ufficiale dell’evento ottenuta dal concorrente. Ad esempio, durante i Giochi Olimpici di Atlanta del 1996 Nike invece di pagare i circa 50 milioni di dollari richiesti dall’organizzazione per la sponsorizzazione, creò un imponente punto vendita nelle vicinanze degli impianti sportivi e ricoprì gli stadi delle sue pubblicità, lasciando così intendere, ingannevolmente, di essere uno degli sponsor ufficiali dell’evento. Nella primavera del 2022 l’AGCM ha invece sanzionato Zalando, che non era sponsor degli UEFA EURO 2020, per aver esposto nel corso della manifestazione e in prossimità del Football Village un enorme cartellone pubblicitario, riportante la scritta “Chi sarà il vincitore?” e le bandiere dei Paesi partecipanti, facendo così sfacciatamente riferimento all’evento e insinuando il dubbio nel pubblico circa l’esistenza di un rapporto commerciale con l’organizzatore UEFA, in realtà inesistente.

Anche la sponsorizzazione di un evento concomitante all’evento principale può rappresentare una forma di ambush marketing. Sempre Nike nel 2008 organizzò, in contemporanea con le Olimpiadi estive di Pechino 2008, la “Nike + Human Race 2008”, una gara di running tenutasi contestualmente in 25 Paesi a scopo di beneficenza ma che aveva il malizioso intento di promuovere l’azienda agganciandosi parassitariamente ai Giochi Olimpici.

Un'altra forma di ambush marketing viene realizzata attraverso iniziative pubblicitarie a sorpresa nel corso o in prossimità della manifestazione. In questo caso lo scopo dell’ambusher non è quello di far credere di avere rapporti commerciali con l’organizzazione dell’evento, ma esclusivamente quello di far parlare di sé. È il caso di Pringles, che durante Wimbledon 2009, pur non essendo sponsor, distribuì fuori dalla sede del torneo confezioni recanti la scritta “These Are Not Tennis Balls”, giocando simpaticamente sulla somiglianza tra il tubo di patatine e quello contenente le palline da tennis e ottenendo così un grande ritorno in termini d’immagine.

Vi è infine una condotta che a prima vista potrebbe sembrare “un’imboscata pubblicitaria” ma che in realtà è una condotta lecita e non lesiva degli altrui diritti e cioè qualora venga creata un’associazione indiretta con l’evento, ad esempio attraverso campagne pubblicitarie in cui compaiono personaggi noti che vi hanno partecipato in precedenza. Significativo a questo proposito è il caso “Lay’s”, azienda di patatine che in occasione dei Mondiali di Calcio del 2014 ha reclutato come testimonial i calciatori Fabio Cannavaro e Lionel Messi, malgrado lo sponsor ufficiale della Nazionale Italiana di calcio, a quei tempi, fosse la concorrente San Carlo. Né l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria né il Tribunale di Torino hanno tuttavia ritenuto di sanzionare la condotta illecita nel caso in parola. Coerentemente con tale decisione, la normativa emanata per Milano Cortina 2026 fa infatti espressamente salve le condotte realizzate in esecuzione di contratti di sponsorizzazione conclusi con singoli atleti, squadre o partecipanti a uno degli eventi.

Alla luce della casistica analizzata, c’è dunque da domandarsi fino a che punto possa spingersi un’impresa nel reclamizzare i propri prodotti in occasione di eventi di grande risonanza mediatica. La mancanza di una chiara definizione di ambush marketing e la genericità dei criteri individuati dai giudici rendono ad oggi difficile individuare in maniera precisa il perimetro entro cui una società può muoversi lecitamente e rendere prevedibile ed evitabile la realizzazione di imboscate pubblicitarie. Né tantomeno il Decreto Ambush Marketing più volte citato risolve tale problematica.

In conclusione, al fine di tutelare adeguatamente gli investimenti sostenuti dalle imprese nel corso di tali eventi ed evitare spiacevoli sorprese, si auspica che il legislatore riesca presto a fornire una definizione normativa del c.d. ambush marketing e individui con chiarezza i presupposti per la sua configurabilità.

Ad ogni modo, ad oggi non c’è ancora stata alcuna imboscata alle Olimpiadi Invernali 2026. Staremo a vedere!


Facebook ancora nel mirino dell’AGCM: una sanzione pecuniaria può essere la soluzione?

Il 17 febbraio 2021 l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (“AGCM”) ha irrogato una sanzione pari a 7 milioni di euro nei confronti di Facebook Ireland e della sua controllante Facebook Inc. per non aver ottemperato ad un precedente provvedimento, sempre dell’AGCM, del 29 novembre 2018 in virtù del quale la società di Menlo Park era già stata condannata al pagamento di una sanzione pecuniaria da 5 milioni di euro per non aver informato i propri utenti che i loro dati personali sarebbero stati utilizzati per scopi commerciali.

Tale ulteriore provvedimento, che non rappresenta altro che “la sanzione della sanzione”, ci induce necessariamente a riflettere sulla reale forza coercitiva delle sanzioni pecuniarie emesse dall’AGCM, oltre che sulla scelta di quest’ultima di insistere con sanzioni analoghe a quelle già emesse nel 2018 nonostante l’accertata inosservanza – e quindi inefficacia - delle stesse (di questo argomento ne avevamo già parlato in un nostro precedente articolo, disponibile qui).

Che forse sia quindi giunto il momento di riadattare il contenuto e la portata dei provvedimenti sanzionatori a tutela del mercato e della libera concorrenza, specialmente quando rivolti ai giganti del web? Si potrebbe, ad esempio, ipotizzare un provvedimento dell’Autorità che blocchi temporaneamente i servizi online offerti sino a quando la società non regolarizzi la propria posizione? O alla rimozione temporanea di un’applicazione dall’App/Play Store con conseguente impossibilità, per la società, di acquisire nuovi utenti? O, ancora, a sanzioni pecuniarie proporzionate al fatturato totale annuo di una società o del suo gruppo (in stile, “GDPR”)?

Ad avviso di chi scrive, una soluzione concreta non può che risiedere nel corretto bilanciamento degli interessi in gioco: da un lato, quelli privati delle multinazionali che tramite i loro social network acquisiscono una enorme quantità di dati personali (e, quindi, di “denaro”); dall’altro, quelli degli utenti del web che utilizzano quotidianamente le principali piattaforme social, spesso non solo per “svago” ma anche per ragioni professionali e di business.


Caso Sixthcontinent: le piattaforme e-commerce sono in grado di “soddisfare” il legittimo affidamento degli utenti?

Il 18 gennaio 2021 l’Autorità Garante della concorrenza e del mercato (AGCM) ha reso noto di aver irrogato una sanzione di 1 milione di euro alla piattaforma digitale “Sixthcontinent” per aver congelato, senza alcun preavviso e arbitrariamente, la facoltà per i consumatori di utilizzare i prodotti, gli importi e le altre utilità acquistate o conseguite sulla piattaforma stessa compresi, per quanto qui d’interesse, i crediti accumulati in virtù degli acquisti effettuati.

Sixthcontinent è innanzitutto una piattaforma e-commerce: l’utente registrato compra su tale piattaforma shopping card grazie alle quali può successivamente effettuare acquisti online o direttamente presso i negozi fisici. Per ogni nuovo acquisto effettuato mediante una shopping card, l’utente ottiene dei bonus che può utilizzare al posto della moneta reale per acquistare ulteriori shopping card, ottenendo in questo modo un considerevole risparmio. La piattaforma in questione funge inoltre anche da social network, poiché consente agli utenti di interagire tra di loro e di trarre vantaggio dai loro rapporti sociali virtuali. Infatti, gli utenti ottengono punti, anch’essi spendibili in acquisti, se introducono la piattaforma a nuovi iscritti, oppure quando soggetti a loro collegati (secondo un meccanismo analogo a quello delle “amicizie” su Facebook) effettuano acquisti su tale piattaforma.

L’idea che sta alla base di questo business è dunque quella di trarre vantaggio proprio dalla comunità, in questo caso virtuale, accumulando punti e crediti e risparmiando quindi sull’acquisto anche di beni di prima necessità, come alimentari e carburante.

In buona sostanza, il contratto che viene sottoscritto tra la piattaforma e l’utente all’atto dell’iscrizione prevede da una parte, (in capo all’utente), l’impegno di introdurre la piattaforma a più soggetti possibili, e dall’altra, quella della piattaforma, quello di offrire agli utenti un ambiente virtuale in cui sia possibile risparmiare dagli acquisti effettuati.

È proprio sul ruolo che assume la piattaforma e sul rapporto che essa va ad instaurare con ciascun consumatore che bisogna qui soffermarsi. Infatti, dal momento che tali piattaforme si propongono come strumenti di risparmio e vantaggi nell’acquisto di beni di uso quotidiano e che trovano nella larga adesione degli utenti la loro forza (nel caso di Sixthcontinent, si tratta di diversi milioni di utenti in tutto il mondo), si può affermare che esse creano un affidamento nel pubblico di utenti che è meritevole di tutela.

Maggiore è l’utilizzo della piattaforma da parte dall’utente (si pensi alla necessità di acquistare beni di prima necessità durante i periodi di lockdown), maggiore è l’aspettativa creata in capo allo stesso.

Come detto, in pochi giorni la piattaforma Sitxhcontinent ha difatti reso inutilizzabili le shopping card, imponendo inoltre agli utenti di accettare un rimborso in “punti” anziché in denaro. La condotta tenuta dalla piattaforma Sixthcontinent è assimilabile a quella di una banca che, di punto in bianco, decida di impedire ai correntisti di prelevare il proprio denaro o di eseguire pagamenti dal proprio conto.

Per buona parte del provvedimento l’AGCM condanna la piattaforma in questione per aver illegittimamente imposto nei confronti del consumatore il rimborso sotto forma di “punti”, senza dunque aver lasciato a quest’ultimo la facoltà di poter scegliere liberamente la modalità di ricezione del suo credito.

Come noto, questa condotta non è in linea con le norme del codice del consumo e non è di certo la prima volta che l’AGCM si trova a dover sanzionare tale tipologia di condotta di una piattaforma e-commerce.

C’è però un ulteriore aspetto che sembra potersi ricavare dal provvedimento in questione e cioè l’intenzione della stessa autorità di voler sanzionare la condotta ingannevole posta in essere dalla piattaforma nel prospettare agli utenti la pretesa convenienza dell’adesione alla community e alle varie offerte, salvo poi procedere al blocco ingiustificato della stessa piattaforma.

In altri termini, il provvedimento sanzionatorio dell’AGCM sopra citato sembra voler mettere in luce l’esistenza di una vera e propria responsabilità della piattaforma online verso gli utenti registrati, nel momento in cui si propone come ambiente virtuale dove è possibile, anche grazie alle interazioni tra gli utenti iscritti, acquistare beni di prima necessità ad un minor prezzo.

La piattaforma che rivolge al pubblico un’offerta di questo tipo crea negli utenti una legittima aspettativa a poter fruire della piattaforma stessa in sicurezza e con continuità, specie per quegli acquisti socialmente più “sensibili” perché essenziali alla vita quotidiana. Di conseguenza, il provvedimento in esame intende affermare che vi è lesione di tale aspettativa qualora il servizio offerto mediante la piattaforma venga improvvisamente ed arbitrariamente interrotto.

Quanto detto ci induce dunque a riflettere su due aspetti rilevanti.

In primo luogo, è ragionevole sostenere l’esistenza di un impegno latu sensu pubblico (oltre che contrattuale) che una piattaforma e-commerce assume nei confronti di ogni utente iscritto e che non può essere disatteso arbitrariamente e senza alcun preavviso, al pari di un qualsivoglia contratto sottoscritto tra le parti (in questo caso firmato tra le parti online).

Dall’altra parte, è ragionevole di conseguenza affermare che una prestazione continuativa di servizi offerti online, al pari di qualsiasi altro servizio, sia in grado di creare un’aspettativa e un legittimo affidamento verso la collettività/utenti registrati, che in quanto tale può essere protetto e fatto valere tramite gli strumenti civilistici e amministrativi offerti dall’ordinamento.


Stampanti e oggetti intelligenti: amici o nemici?

Il 9 Dicembre 2020 l’Autorità Garante della concorrenza e del mercato, tra le altre cose, ha irrogato una sanzione pari complessivamente alla somma di 10 milioni di euro nei confronti delle società HP Inc e HP Italy S.r.l. (di seguito “HP) per due differenti pratiche commerciali relative alle stampanti a marchio HP ritenute scorrette. Per il testo integrale del provvedimento si veda il seguente link https://www.agcm.it/dotcmsdoc/allegati-news/PS11144_chiusura.

In primo luogo, l’Autorità ha sanzionato le società in questione per non aver correttamente informato i clienti della installazione nelle stampanti di un software che permetteva di stampare solo con toner e cartucce HP, mentre non consentiva la stampa in caso di utilizzo di ricariche non originali.

La seconda condotta ritenuta sanzionabile dall’AGCM consisteva invece nella registrazione, tramite firmware presenti sulle stampanti HP e all’insaputa dei consumatori, dei dati relativi alle specifiche cartucce utilizzate (originali e non): tali dati venivano utilizzati sia per creare un database utile per formulare le proprie strategie commerciali, sia per negare l’assistenza per le stampanti che avessero utilizzato cartucce non originali, ostacolando così lo sfruttamento della garanzia legale di conformità.

Proprio con riferimento a quest’ultimo comportamento, è interessante notare come si tratti di un caso di uso distorto del c.d. “Internet of Things”. Con questa espressione si intende infatti “la rete di oggetti fisici contenenti tecnologia incorporata per comunicare e rilevare o interagire con i loro stati interni o l’ambiente esterno.” (Gartner).

Sebbene nel caso in esame la tecnologia utilizzata da HP si limiti ad una raccolta delle sole informazioni relative all’utilizzo delle stampanti, è chiaro però che la diffusione di oggetti in grado di registrare e trasmettere dati riguardo ai nostri comportamenti quotidiani potrebbe assumere risvolti inquietanti. La preoccupazione nasce non solo dall’eventualità che la raccolta di dati avvenga a nostra insaputa, ma anche e soprattutto dagli utilizzi e dagli scopi che spingono le aziende ad acquisire tali dati.

Naturalmente, non possono di certo ignorarsi i risvolti positivi che un flusso costante di informazioni da parte degli oggetti potrebbe fornire, ad esempio, dal punto di vista dell’efficienza e miglioramento delle catene produttive, nonché dei sistemi di sicurezza per i cittadini (si pensi ai “semafori intelligenti”). Tuttavia, casi come quello preso in esame dall’AGCM ci inducono a riflettere sull’eventualità che queste tecnologie possano limitare eccessivamente i diritti dei consumatori.

Dal caso in esame è dunque possibile trarre alcuni insegnamenti e riflessioni e cioè che innanzitutto, prima di procedere con l’acquisto, è certamente consigliabile acquisire il maggior numero di informazioni possibili sulla tipologia di sensori e rilevatori eventualmente incorporati negli oggetti che intendiamo comprare e soprattutto appurare quale sarà l’utilizzo dei dati acquisiti da tali dispositivi.

In seconda battuta, è certamente opportuno domandarsi entro quali limiti l’utilizzo di tali dispositivi “intelligenti” possa favorire l’innovazione e il miglioramento della società e quando, invece, vada a ledere e comprimere i diritti dei consumatori, intesi sia come diritti ad essere informati sia come i diritti basilari riconosciuti a seguito di un acquisto di un prodotto (si pensi alle limitazioni all’esercizio della garanzia legale di cui si è detto sopra).


iPhone: né a prova d’acqua, né a prova di AGCM

IL CASO

Il 30 novembre 2020 l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM) ha sanzionato per 10 milioni di euro le società Apple Distribution International e Apple Italia S.r.l. (di seguito “Apple”) per aver diffuso messaggi promozionali tramite i quali si esaltava la resistenza all’acqua di diversi modelli di iPhone, omettendo tuttavia di specificare che detta proprietà risultava vera solamente in presenza di particolari circostanze non corrispondenti alle normali condizioni d’uso da parte dei consumatori (pratica commerciale cd. “ingannevole[1]”).

Inoltre, tali messaggi promozionali risultavano contraddittori a causa della contestuale presenza del seguente disclaimer “La garanzia non copre i danni provocati da liquidi”. Di fatto, nella fase post-vendita veniva negata da Apple la riparazione degli iPhone danneggiati a causa dell’introduzione di acqua o di altri liquidi, ostacolando quindi l’esercizio del diritto di garanzia riconosciuto dal Codice del Consumo (pratica commerciale cd. “aggressiva[2]”).

QUALI CONSEGUENZE SULL’IMPRESA SANZIONATA

La presente vicenda ci consente di focalizzare l’attenzione sulle conseguenze che derivano in capo all’impresa destinataria di un provvedimento di un’autorità (nel caso in esame, l’AGCM).

Innanzitutto, tale provvedimento non può che avere ripercussioni sull’assai complesso rapporto di fiducia che si viene ad instaurare tra impresa e consumatori.

È noto infatti che il marchio d’impresa suggerisce al consumatore, proprio all’atto d’acquisto, che il prodotto contraddistinto da detto segno origina da tale azienda.

Fra il consumatore e l’impresa si viene dunque a costruire un rapporto di tipo psicologico ed emotivo che in quanto tale è facilmente condizionabile da circostanze esterne.

Ed è esattamente in questo delicato contesto che si inserisce il provvedimento sanzionatorio dell’AGCM nei confronti di Apple, giacché esso rende vulnerabili propri i presupposti di tale relazione, vale a dire fiducia ed affidabilità.

Non bisogna infatti dimenticare che la base di tale relazione è di tipo mnemonico e cioè si fonda sul ricordo (positivo) che il consumatore richiama e conserva rispetto ad un’azienda ed ai suoi prodotti e servizi. Il provvedimento sanzionatorio dell’autorità colpisce precisamente tale ricordo in quanto, tra le altre cose, si propone di mettere in guardia il consumatore per il futuro.

È facile infatti immaginare che oggigiorno la notizia di tale provvedimento venga diffusa rapidamente tramite i social network e raggiunga dunque una considerevole fetta dei clienti dell’impresa punita. Su questo punto è certamente condivisibile la scelta dell’AGCM di obbligare Apple ad altresì pubblicare il provvedimento nella sezione del proprio sito web dedicata alla vendita degli iPhone, sotto la dicitura “Informazioni a tutela del consumatore”.

Questo ha per l’impresa venditrice effetti più gravi rispetto ad una sanzione economica poiché lede la sua immagine e suggerisce al consumatore di prestare maggiore attenzione qualora intenda acquistare ulteriori prodotti provenienti dall’azienda colpita dal provvedimento.

Tutto questo si traduce per l’azienda in ulteriori costi “invisibili” e cioè costi che la stessa azienda dovrà sostenere nei mesi successivi al fine di ricostruire il rapporto di fiducia/affidabilità con il proprio cliente (cd. “pubblicità ricostruttiva”). Senza qui voler dimenticare le attività correttive (e relativi costi) che, a seguito del monito ricevuto dall’Autorità, l’azienda sanzionata dovrà porre in essere in relazione ai prodotti già presenti sul mercato o in procinto di esserlo.

Sotto diverso profilo, il provvedimento dell’AGCM è anche portatore di una sanzione pecuniaria.

Nel caso in esame, la sanzione irrogata, pur costituendo il massimo edittale previsto dalla normativa vigente, rappresenta tuttavia meno del 5% del fatturato globale realizzato dal gruppo Apple nell’esercizio concluso a settembre 2019, pari a circa 231,57 miliardi di euro.

Ci si domanda quindi se tale sanzione possa avere un concreto effetto deterrente.

La risposta non può che essere negativa. Bisogna però soffermarsi su un diverso aspetto e cioè sul criterio di determinazione del quantum della sanzione pecuniaria.

Se l’asserita resistenza all’acqua degli Iphone fosse stata la ragione unica che ha determinato il consumatore ad acquistare un prodotto Apple piuttosto che di un rivale, sarebbe corretta una sanzione di soli 10 milioni di euro?

Evidentemente no ed infatti in tale specifico caso bisognerebbe tenere in considerazione l’intero costo di un iPhone (circa 1.000 euro) e applicare perlomeno una percentuale a titolo di sanzione sul fatturato generato dalla vendita (scorretta) dello stesso nel territorio in cui opera l’autorità competente.

Ne deriva che un criterio predeterminato di quantificazione di una sanzione – qual è quello previsto dal Codice del Consumo per le pratiche scorrette - è di per sé insufficiente a valutare tutte le circostanze del caso e di conseguenza a punire appropriatamente una condotta commercialmente scorretta di un’impresa.

CONSIDERAZIONI FINALI

La sensazione è che le imprese, specie quelle con fatturati da capogiro, stiano sottovalutando l’importanza di mantenere una maggiore trasparenza nei confronti del mercato, forse nell’errata convinzione che talune pratiche passino inosservate. In realtà, come visto, esse hanno conseguenze piuttosto negative sul rapporto con la propria clientela. Peraltro, in settori dove la concorrenza è agguerrita, il rischio che il cliente scelga il concorrente è sempre dietro l’angolo.

La disciplina sanzionatoria potrebbe quindi non essere sufficientemente severa da sortire gli effetti deterrenti sperati. Certo è che ad essere penalizzato è lo stesso consumatore che non riceve una tutela e protezione adeguata.

E’ ragionevole quindi domandarsi l’utilità di forme sanzionatorie diverse da quelle pecuniarie perché vi sia una concreta tutela degli interessi del consumatore.

Potrebbe dunque essere opportuno valutare l’introduzione di diverse misure restrittive (che abbiano anche una portata pratica e che siano proporzionate alle quote di mercato detenute dall’azienda) nei confronti delle aziende responsabili di porre in essere pratiche commerciali scorrette.

[1] Le pratiche scorrette si definiscono ingannevoli quando rappresentano elementi e/o caratteristiche di un prodotto non corrispondenti al vero.
[2] Le pratiche scorrette si definiscono aggressive quando consistono in molestie, coercizioni o altre forme di indebito condizionamento psicologico dei consumatori.