Attraverso gli artt. 623 c.p. e 98 del d.lgs. 10 febbraio 2005 n. 30, il legislatore ha posto le basi per la tutela del segreto industriale con il preciso scopo di proteggere tutte quelle attività e investimenti che il detentore del segreto mantiene riservate in quanto gli garantiscono un vantaggio competitivo sul mercato.

Bisogna innanzitutto partire dalla nota definizione di “segreto commerciale” offerta dall’art. 98 del Codice di proprietà industriale (di seguito “c.p.i.”) a mente del quale solo le informazioni segrete, aventi valore economico e sottoposte a rigide misure di sicurezza possono essere protette come know-how aziendale.

Non è tuttavia corretto affermare che la tutela civilistica del know how riguardi unicamente le informazioni che dimostrano di possedere le tre caratteristiche poc’anzi citate. Ed infatti, lo stesso art. 99 del c.p.i., facendo salva la disciplina della concorrenza sleale, riconosce l’esistenza di segreti industriali che, pur non rispondendo ai criteri indicati dall’art. 98 c.p.i., sono comunque meritevoli di tutela.

In buona sostanza è comunque consentito ad un imprenditore di tutelarsi attraverso un’azione di concorrenza sleale in caso di sottrazione illecita di dati oggettivamente riservati, per i quali non siano state tuttavia adottate tutte le misure di segretezza. In questo caso però l’imprenditore dovrà vincere un’ulteriore e diversa prova di forza, vale a dire avrà l’onere di dimostrare che le informazioni sottratte erano da ritenersi come oggettivamente confidenziali in ragione del proprio valore intrinseco.

Accanto alla tutela civilistica poc’anzi commentata, l’ordinamento nazionale offre anche una protezione in sede penale, in particolare, mediante l’art. 623 c.p.. Tale norma non definisce esplicitamente cosa debba intendersi per know-how, limitandosi a recitare quanto segue: “segreti commerciali o notizie destinate a rimanere segrete, sopra scoperte o invenzioni scientifiche”. Questa è una prima differenza ravvisabile tra la norma civile e quella penale in esame che riguarda quindi l’oggetto e i presupposti del know-how.

Grazie alla copiosa giurisprudenza penale in tema di know-how, nonché in base a quanto affermato dalla dottrina maggioritaria, è possibile tuttavia affermare che il bene giuridico protetto dall’art. 623 c.p. è rappresentato dall’interesse del detentore del segreto commerciale di evitare divulgazioni di notizie attinenti ai metodi e processi che caratterizzano la struttura industriale di un’azienda.

Dunque, il c.d. know-how – secondo la definizione da tempo affermata dal giudice di legittimità – deve essere inteso quale patrimonio cognitivo e organizzativo necessario per la costruzione, l’esercizio, la manutenzione di un apparato industriale. Tale assunto, affermato recentemente dalla Cassazione Penale nella nota sentenza n. 16975/2020, si riferisce quindi non solo ad un’unica tecnica o una prassi o ad una informazione aziendale, bensì all’intero patrimonio di conoscenze di un’impresa, frutto di esperienze, ricerca e investimenti accumulati negli anni.

Sempre nella sentenza della Corte citata poc’anzi si legge che “dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere che la copertura offerta dall’art. 623 c.p. vada oltre quella predisposta dall’ordinamento civilistico all’invenzione brevettabile, ed infatti il giudice di legittimità ha più volte affermato che, ai fini della tutela penale del segreto industriale, novità (intrinseca od estrinseca) ed originalità non sono requisiti essenziali delle applicazioni industriali, poiché non espressamente richiesti dal disposto legislativo e perché l’interesse alla tutela penale della riservatezza non deve necessariamente desumersi da tali caratteristiche delle notizie protette.

Questo vuol dire che, anche se la sequenza di informazioni, che, nel loro insieme, costituiscono un tutt’uno per la concretizzazione di una fase economica specifica dell’attività dell’azienda, è costituita da singole informazioni di per sé note, ove detta sequenza sia invece non conosciuta e sia considerata segreta in modo fattivo dall’azienda, essa è di per sé degna di protezione e tutela. Non è necessario, cioè, che ogni singolo dato cognitivo che compone la sequenza sia “non conosciuto”; è necessario, invece, che il loro insieme organico sia frutto di un’elaborazione dell’azienda. E’ attraverso questo processo, infatti, che l’informazione finale acquisisce un valore economico aggiuntivo rispetto ai singoli elementi che compongono la sequenza cognitiva. E’ ciò che accade, appunto, nel caso di una azienda che adotti una complessa strategia per lanciare un prodotto sul mercato: i suoi singoli elementi sono senz’altro noti agli operatori del settore, ma l’insieme può essere stato ideato in modo tale da rappresentare un qualcosa di nuovo e originale, costituendo, in tal modo, un vero e proprio tesoro dal punto di vista concorrenziale per l’ideatore[1].

I principi poc’anzi esposti definiscono, con maggior chiarezza, il perimetro della nozione di “segreto commerciale” rilevante in sede penale, prospettandone – condivisibilmente – una lettura estensiva in grado di assicurare una più incisiva tutela del patrimonio conoscitivo ed esperienziale aziendale.

E’ bene chiarire che la condotta sanzionabile ai sensi dell’art 98 c.p.i può comunque integrare la fattispecie di reato prevista e punita dall’art 623 c.p.. Quindi, il soggetto che reputi violato un suo segreto commerciale, ha la possibilità di promuovere sia un’azione civile per il ristoro dei danni patiti dalla violazione ai sensi del disposto dell’art 98 c.p.i, nonché un’azione penale per chiedere la condanna del responsabile. Tuttavia, mentre per quanto concerne l’azione civile il soggetto dovrà provare che il segreto commerciale violato non è noto, ha un valore patrimoniale ed è stato protetto con misure di sicurezza adeguate, nell’azione penale lo stesso soggetto dovrà invece dimostrare la rivelazione e/o l’impiego, per un proprio o altrui profitto, del segreto da parte della persona che era venuta a conoscenza dello stesso in ragione dei propri doveri di ufficio. Si riscontra quindi una seconda differenza tra le due tutele in esame che riguarda in questo caso un diverso regime dell’onere della prova.

Infine, da un punto di vista processuale, va precisato che in ambito civile si può procedere indifferentemente nei confronti della persona fisica che rivela il segreto commerciale e/o nei confronti dell’azienda che se ne avvantaggia, mentre nel procedimento penale si dovrà necessariamente procedere, ai sensi dell’art. 27 Cost., sia nei confronti di chi rivela il segreto che nei confronti di chi detiene la posizione di garanzia all’interno dell’azienda che eventualmente impiega a proprio vantaggio le nozioni che costituiscono il segreto commerciale. Si ravvisa quindi un’ulteriore differenza tra le norme oggetto di analisi, questa volta di natura processuale.

In sintesi, le principali differenze riscontrabili tra la tutela civilistica e quella penale del know-how riguardano:

  1. l’oggetto e gli elementi costitutivi del know-how;
  2. un diverso onere della prova del know-how;
  3. aspetti processuali (quali ad esempio una diversa legittimazione passiva).

 

[1] Cassazione penale sez. V – 11/02/2020, n. 16975