Internet of Things e Intelligenza Artificiale: la fine o l’inizio dei brevetti essenziali?

La pandemia COVID-19 ha imposto a tutti una quarantena forzata e quindi di riorganizzare la vita personale e lavorativa direttamente dalla propria dimora.

Tutto ciò non ha fatto altro che dimostrare e aumentare la nostra preoccupante dipendenza da strumenti informatici e nuove tecnologie, il cui utilizzo nel 2020 è aumentato in maniera esponenziale in ogni settore, anche in quelli dove si faticava ad immaginarne l’utilizzo (si pensi ad esempio alle udienze giudiziali svolte in teleconferenza ovvero la didattica a distanza, ecc.).

In maniera analoga stiamo inoltre assistendo ad una sempre maggiore integrazione digitale di oggetti, dispositivi, sensori e beni di uso quotidiano che oramai fanno parte integrante della nostra vita quotidiana.

Svolta questa dovuta premessa, c’è a questo punto da domandarsi quale impatto avrà l’attuale rivoluzione tecnologica nel settore della proprietà intellettuale e, segnatamente, nell’ambito dei brevetti.

A nostro avviso gli attuali cambiamenti porteranno certamente giovamento al settore delle invenzioni; infatti, per quanto qui d’interesse, grazie al ruolo decisivo dell’intelligenza artificiale e internet of things, è lecito attendersi un considerevole incremento di depositi di brevetti cd. essenziali.

Come noto, i brevetti essenziali – vale a dire “Standard Essential Patent” (SEP) – sono brevetti che proteggono tecnologie appunto essenziali per l’implementazione di standard riconosciuti da organismi di normazione.

Tali brevetti sono già presenti nella nostra vita più di quanto noi immaginiamo, ed infatti li usiamo per chiamare o inviare messaggi con il nostro smartphone, per inviare file tramite e-mail, per ascoltare i brani della nostra playlist o semplicemente mentre guardiamo le serie TV preferite, seduti sul divano di casa.

Gli standard più noti ad oggi sono forse “Bluetooth”, “WiFi” e “5G”, ma come detto il compimento di una delle azioni di cui sopra coinvolge decine di standard a loro volta già protetti dai citati brevetti.

La Commissione Europea in una recente comunicazione dello scorso novembre rivolta al Parlamento Europeo ha evidenziato il ruolo cruciale dei brevetti essenziali nello sviluppo della tecnologia 5G e dell’Internet of Things, rilevando, ad esempio, che solo per gli standard di connettività mobile sono state dichiarate all'ETSI (l'Istituto Europeo delle norme di telecomunicazione) più di 25.000 famiglie di brevetti.

Nella medesima comunicazione la Commissione rilevava tuttavia le difficoltà che alcune imprese continuano ad incontrare nel trovare con i titolari dei brevetti essenziali un accordo sulla concessione di licenze e il conseguente crescente numero di controversie tra titolare e utilizzatore.

Come noto, infatti, un brevetto viene definito essenziale a seguito di una sorta di autodichiarazione del titolare che dichiara che il suo brevetto è appunto necessario ed essenziale per l’applicazione di uno standard e quindi, mediante tale dichiarazione, si rende disponibile a concederlo in licenza a chi intende utilizzare lo standard in questione a condizioni cd. “FRAND” (“Fair, Reasonable And Non-Discriminatory”), vale a dire a condizioni di licenza eque, ragionevoli e non discriminatorie.

Nella pratica accade quindi che il titolare di un brevetto essenziale, una volta accertata la presenza sul mercato di un prodotto che utilizza un certo standard, si rivolge al suo produttore o distributore per chiedere di sottoscrivere un contratto di licenza a condizioni “FRAND”.

Il soggetto utilizzatore a quel punto non ha altra scelta se non quella di accettare la licenza alle condizioni proposte dal titolare del brevetto; infatti, a differenza dei brevetti non essenziali dove evidentemente l’utilizzatore può ricercare soluzioni alternative che non violino il brevetto in questione, per i brevetti essenziali ciò non è possibile in quanto si tratta di standard utilizzati per conformarsi a norme tecniche su cui si basano milioni di prodotti e che consentono quindi l’interoperabilità degli stessi.

Inoltre, investire nello sviluppo di uno standard alternativo è assai oneroso (si pensi ad esempio allo sviluppo di un’alternativa allo standard “Bluetooth”), ma – anche assumendo lo sviluppo di uno standard alternativo - bisognerebbe poi convincere i consumatori a “passare” al nuovo standard, sostituendo i vecchi dispositivi con i nuovi.

Il rischio che una tale situazione possa provocare distorsioni del mercato e soprattutto abusi da parte dei titolari dei brevetti essenziali è quindi molto alto; i titolari dei brevetti essenziali possono infatti decidere le sorti di un prodotto di un determinato mercato in quanto vincolano tutti gli operatori dello stesso ad utilizzarlo a fronte del pagamento di una royalty.

Proprio al fine di contemperare gli interessi in gioco, la nota sentenza della Corte di Giustizia nel caso “Huawei v. ZTE” (C-170/13 del 16.07.2015) era intervenuta già nel 2015 per prevedere in capo al titolare dei brevetti essenziali una serie di obblighi, vale a dire, tra gli altri, a) l’obbligo di garantire sempre condizioni cd. FRAND in favore del potenziale licenziatario; b) l’obbligo del titolare del brevetto SEP di avvisare preventivamente l’utilizzatore dello standard protetto indicando il brevetto che sarebbe stato violato e specificando in quale modo sarebbe stato contraffatto e, in caso l’utilizzatore si rifiuti di collaborare, adire le autorità giudiziali.

In presenza di tali condizioni, ad opinione dei Giudici della Corte, non sussisterebbe da parte del titolare del brevetto essenziale alcun abuso di posizione dominante sul mercato sanzionabile ai sensi dell’art. 101 TFUE.

La realtà è però ben diversa in quanto i titolari dei brevetti essenziali continuano ad avere un eccessivo potere negoziale nei confronti dell’utilizzatore dello standard protetto. Infatti, come detto, l’essenzialità o meno di un brevetto dipende da un’autodichiarazione resa dallo stesso titolare del brevetto che peraltro fonda “de facto” una presunzione di essenzialità del brevetto; tale circostanza agevola ulteriormente i titolari nei giudizi in quanto l’onere della prova viene posto a carico del presunto contraffattore che dovrà dimostrare la non interferenza o la non essenzialità.

Aggiungasi che ad oggi non esistono norme a protezione della parte debole, vale a dire l’utilizzatore del brevetto essenziale, ed infatti non vi sono ad esempio parametri di riferimento che definiscano con chiarezza le condizioni eque, ragionevoli e non discriminatorie. In altri termini, l’utilizzatore non è quindi in grado di verificare se le condizioni proposte dal titolare siano effettivamente “FRAND” e quindi ha due opzioni: accettare tali condizioni o ribellarsi e intraprendere un contenzioso nei confronti del titolare.

Malgrado la questione dei brevetti essenziali sia stata oggetto di diverse pronunce negli anni e di specifici richiami da parte della Commissione Europea, diverse questioni restano ancora aperte e necessitano di un immediato intervento da parte del legislatore sia per rafforzare la certezza giuridica sia per ridurre il crescente numero di controversie in materia.

Ad avviso di chi scrive appare ad esempio necessario creare ed istituire un organo indipendente in grado di verificare a priori il carattere essenziale di un brevetto prima che esso venga protetto, nonché prevedere norme specifiche, efficaci ed eque che regolino la concessione di licenze per brevetti essenziali.

Peraltro, in ragione della rivoluzione tecnologica in atto e del conseguente crescente utilizzo di tali brevetti, è auspicabile che tali riforme siano portate a compimento in tempi rapidi.


Stampanti e oggetti intelligenti: amici o nemici?

Il 9 Dicembre 2020 l’Autorità Garante della concorrenza e del mercato, tra le altre cose, ha irrogato una sanzione pari complessivamente alla somma di 10 milioni di euro nei confronti delle società HP Inc e HP Italy S.r.l. (di seguito “HP) per due differenti pratiche commerciali relative alle stampanti a marchio HP ritenute scorrette. Per il testo integrale del provvedimento si veda il seguente link https://www.agcm.it/dotcmsdoc/allegati-news/PS11144_chiusura.

In primo luogo, l’Autorità ha sanzionato le società in questione per non aver correttamente informato i clienti della installazione nelle stampanti di un software che permetteva di stampare solo con toner e cartucce HP, mentre non consentiva la stampa in caso di utilizzo di ricariche non originali.

La seconda condotta ritenuta sanzionabile dall’AGCM consisteva invece nella registrazione, tramite firmware presenti sulle stampanti HP e all’insaputa dei consumatori, dei dati relativi alle specifiche cartucce utilizzate (originali e non): tali dati venivano utilizzati sia per creare un database utile per formulare le proprie strategie commerciali, sia per negare l’assistenza per le stampanti che avessero utilizzato cartucce non originali, ostacolando così lo sfruttamento della garanzia legale di conformità.

Proprio con riferimento a quest’ultimo comportamento, è interessante notare come si tratti di un caso di uso distorto del c.d. “Internet of Things”. Con questa espressione si intende infatti “la rete di oggetti fisici contenenti tecnologia incorporata per comunicare e rilevare o interagire con i loro stati interni o l’ambiente esterno.” (Gartner).

Sebbene nel caso in esame la tecnologia utilizzata da HP si limiti ad una raccolta delle sole informazioni relative all’utilizzo delle stampanti, è chiaro però che la diffusione di oggetti in grado di registrare e trasmettere dati riguardo ai nostri comportamenti quotidiani potrebbe assumere risvolti inquietanti. La preoccupazione nasce non solo dall’eventualità che la raccolta di dati avvenga a nostra insaputa, ma anche e soprattutto dagli utilizzi e dagli scopi che spingono le aziende ad acquisire tali dati.

Naturalmente, non possono di certo ignorarsi i risvolti positivi che un flusso costante di informazioni da parte degli oggetti potrebbe fornire, ad esempio, dal punto di vista dell’efficienza e miglioramento delle catene produttive, nonché dei sistemi di sicurezza per i cittadini (si pensi ai “semafori intelligenti”). Tuttavia, casi come quello preso in esame dall’AGCM ci inducono a riflettere sull’eventualità che queste tecnologie possano limitare eccessivamente i diritti dei consumatori.

Dal caso in esame è dunque possibile trarre alcuni insegnamenti e riflessioni e cioè che innanzitutto, prima di procedere con l’acquisto, è certamente consigliabile acquisire il maggior numero di informazioni possibili sulla tipologia di sensori e rilevatori eventualmente incorporati negli oggetti che intendiamo comprare e soprattutto appurare quale sarà l’utilizzo dei dati acquisiti da tali dispositivi.

In seconda battuta, è certamente opportuno domandarsi entro quali limiti l’utilizzo di tali dispositivi “intelligenti” possa favorire l’innovazione e il miglioramento della società e quando, invece, vada a ledere e comprimere i diritti dei consumatori, intesi sia come diritti ad essere informati sia come i diritti basilari riconosciuti a seguito di un acquisto di un prodotto (si pensi alle limitazioni all’esercizio della garanzia legale di cui si è detto sopra).