Libero trasferimento dei dati personali verso la Repubblica di Corea: in arrivo una storica decisione di adeguatezza

Il Comitato europeo per la protezione dei dati personali (“European Data Protection Board”) ha emanato il proprio parere in merito alla bozza di decisione di adeguatezza pubblicata dalla Commissione Europea lo scorso 16 giugno 2021 (disponibile qui) relativa al trasferimento dei dati verso la Repubblica di Corea.

Si tratta di una decisione che, una volta entrata in vigore, permetterà agli operatori economici del mercato europeo – pensiamo, in primis, ai fornitori di servizi di comunicazione elettronica, ai cloud provider e alle multinazionali - di trasferire liberamente i dati personali dall’Europa alla Repubblica di Corea senza dover adottare né le garanzie adeguate (ad es., “Standard Contractual Clauses”) né le condizioni supplementari (ad es. il consenso degli interessati) richieste dal capo V del Regolamento UE n. 679/2016 (“GDPR”).

Infatti, ai sensi degli artt. 44 e ss. del GDPR, i trasferimenti di dati personali verso i Paesi non appartenenti allo Spazio Economico Europeo o verso un’organizzazione internazionale sono consentiti a condizione che l’adeguatezza del Paese terzo o dell’organizzazione sia espressamente riconosciuta tramite decisione della Commissione.

Esaminiamo quindi in dettaglio le osservazioni del Comitato europeo contenute nel summenzionato parere.

In primo luogo, si è osservato come il quadro normativo in materia di protezione dei dati personali vigente in Repubblica di Corea sia sostanzialmente allineato a quello europeo, soprattutto per quanto concerne le principali definizioni presenti nel testo di legge (“dati personali”, “trattamento” e “interessato”), i requisiti di liceità del trattamento, i principi generali e le misure di sicurezza.

Questo è stato possibile non solo grazie alla presenza di un’efficace  legge privacy (i.e.,Personal Information Protection Act” o “PIPA” entrato in vigore nel 2011) bensì anche in ragione di una serie di “notifiche” (tra cui la “Notifica n. 2021-1”) emanate dall’Autorità garante per la protezione dei dati personali coreana (i.e.,Personal Information Protection Commissioner” o “PIPC”) che hanno il merito di interpretare e rendere agevolmente comprensibili le disposizioni del PIPA.

Inoltre, come rilevato dal Comitato, la Repubblica di Corea è parte di diversi accordi internazionali che garantiscono il diritto alla riservatezza dei dati personali (tra cui la “Convenzione internazionale sui diritti civili e politici”, la “Convenzione sui diritti delle persone con disabilità” e la “Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia”), il che fornisce un’ulteriore conferma dell’attenzione che la Repubblica di Corea rivolge ormai da diversi anni alla protezione delle informazioni personali.

L'analisi del Comitato si è poi focalizzata su alcuni aspetti chiave del PIPA che differiscono leggermente rispetto a quanto previsto dal GDPR e che richiedono quindi maggiore attenzione - quali, in particolare, l’assenza di un generale diritto degli interessati di revocare il consenso fornito, ad esempio, per attività di marketing.

Secondo il Comitato, nonostante l’art. 37 del PIPA conferisca agli interessati il diritto di chiedere la “sospensione” del trattamento dei propri dati personali – diritto esercitabile anche in caso di direct marketing, come espressamente chiarito dal Considerando 79 alla decisione di adeguatezza della Commissione europea - nel PIPA il diritto alla revoca del consenso viene menzionato solo in due specifici casi:

  1. relativamente ai trasferimenti di dati personali effettuati nell’ambito di operazioni societarie straordinarie (i.e., fusioni, acquisizioni, ecc.);
  2. con riferimento al trattamento dei dati per finalità di marketing da parte dei fornitori di servizi di comunicazione elettronica.

Il Comitato ha quindi ritenuto necessario richiamare l’attenzione della Commissione sui summenzionati aspetti affinché analizzi più approfonditamente le conseguenze che, alla luce del quadro normativo coreano, potrebbe comportare per gli interessati la mancanza di un simile diritto e chiarisca, nella decisione di adeguatezza, l’effettiva portata del summenzionato diritto alla “sospensione” del trattamento.

In secondo luogo, il Comitato ha rilevato che, ai sensi dell’art. 58 del PIPA, una parte sostanziale di tale testo di legge – compresi i capi III, IV e V, che disciplinano rispettivamente i principi generali per il trattamento dei dati, le misure di sicurezza e i diritti degli interessati – non si applica a tutta una serie di trattamenti di dati personali (tra i quali rientrano quelli necessari per far fronte ad urgenti esigenze di tutela della sicurezza e della salute pubblica).

Il Comitato osserva che il termine “urgenti” presente nel PIPA esprime un concetto estremamente ampio che necessita di essere limitato e contestualizzato, anche con l’ausilio di esempi pratici, al fine di non compromettere la riservatezza dei dati degli interessati.

Inoltre, il Comitato, alla luce dell’attuale contesto emergenziale provocato dalla pandemia da Covid-19, ha richiamato l’attenzione della Commissione sulla necessità di garantire un livello di protezione adeguato anche ai dati personali trasferiti in Repubblica di Corea per finalità connesse alla tutela della salute pubblica.

Ciò in quanto le informazioni “sensibili” relative ai cittadini europei (ad es., lo stato di vaccinazione), una volta giunte in Repubblica di Corea, dovrebbero ricevere un livello di protezione almeno pari a quello previsto dal GDPR. In questo senso, il Comitato ha quindi invitato la Commissione a monitorare attentamente l’applicazione delle deroghe previse dall’art. 58 del PIPA.

Infine, il Comitato ha ritenuto opportuno focalizzare la propria attenzione sulla possibilità di accedere ai dati personali dei cittadini europei da parte delle autorità pubbliche coreane per finalità di sicurezza nazionale. A tal proposito, manca uno specifico obbligo in capo alle autorità coreane di informare gli interessati dell’avvenuto accesso ai loro dati personali, specie quando gli interessati non siano cittadini coreani.

Tuttavia, pur in assenza di tale obbligo, il bilanciamento tra le esigenze di tutela della sicurezza nazionale e la protezione dei diritti e delle libertà fondamentali degli interessati può rinvenirsi nella stessa legge coreana che tutela la riservatezza delle comunicazioni interpersonali (the “Communications Privacy Protection Act” – cfr. anche il Considerando 187 alla decisione di adeguatezza) ai sensi della quale l’accesso ai dati personali dei cittadini europei per finalità di sicurezza nazionale può essere effettuato solo in presenza di determinati presupposti di legge (ad es., qualora si tratti di comunicazioni intercorse tra “agenzie, gruppi o cittadini stranieri sospettati di essere coinvolti in attività che minaccino la sicurezza della nazione”).

Il Comitato europeo osserva che, ad ulteriore garanzia della riservatezza delle comunicazioni oggetto di accesso da parte delle autorità coreane, la costituzione sudcoreana sancisce principi essenziali in materia di protezione dei dati applicabili proprio a questo settore.

Alla luce del favorevole parere emesso dal Comitato europeo per la protezione dei dati personali è certamente auspicabile, oltre che probabile, l’adozione di una decisione di adeguatezza da parte della Commissione relativamente alla Repubblica di Corea.

In un’economia globale sempre più data driven basata sul valore economico delle informazioni personali e sullo scambio dei dati, tale decisione di adeguatezza aprirebbe le porte alla liberalizzazione degli scambi commerciali con l’oriente anche da un punto di vista privacy.

Un intervento normativo, quello oggetto del presente contributo, tanto dovuto quanto atteso, che si pone certamente sulla scia dell’“Accordo di libero scambio” tra UE e Corea del Sud in vigore dal 2011 che è stato in grado di aumentare esponenzialmente gli scambi bilaterali tra i due paesi (basti pensare che nel 2015 il valore commerciale delle transazioni si attestava intorno ai 90 miliardi di euro).

L’auspicio è naturalmente quello che, con il passare degli anni, le valutazioni di adeguatezza da parte della Commissione Europea abbiano ad oggetto sempre più ordinamenti in modo che il trasferimento internazionale di dati personali possa rappresentare un reale e concreto strumento in grado di favorire l’economia e l’innovazione in tutto il mondo.


Direttiva Copyright: una sfida ancora aperta

Il percorso che sta portando all’attuazione della direttiva Copyright è stato lungo e pieno di battute d’arresto. Infatti, solo lo scorso 6 agosto, con due mesi di ritardo rispetto al termine ultimo fissato dalla stessa direttiva, il Consiglio dei Ministri ha approvato la bozza di Decreto Legislativo di attuazione della medesima, ora nuovamente al vaglio del Parlamento.

Uno degli elementi che ha contribuito a rallentare l’iter legislativo di questo nuovo testo è l’obiettivo che la direttiva si propone di perseguire, vale a dire quello di riequilibrare i rapporti, da un lato, tra le grandi piattaforme digitali che diffondono e aggregano contenuti creativi e, dall’altro, quelli tra produttori, autori ed esecutori di tali contenuti.

In questa prospettiva sono state quindi introdotte diverse novità, qui di seguito elencate, che hanno suscitato non poche perplessità:

  • Articolo 13: creazione di un organismo imparziale che assista i creatori di opere audiovisive nella negoziazione di accordi di licenza con le piattaforme di servizi video on demand (come Netflix, Prime Video, Disney Plus, etc.). Si tratta quindi di uno strumento a protezione degli autori e dei loro diritti che ha quale unico scopo quello di limitare l’enorme potere negoziale che le piattaforme digitali sfruttano a proprio vantaggio nei confronti di tali soggetti;
  • Articolo 14: libero utilizzo degli atti di riproduzione di opere delle arti visive che siano divenute di dominio pubblico poiché risulta scaduta la protezione del diritto d’autore. In buona sostanza, se cade in pubblico dominio un’opera delle arti visive, come ad esempio un quadro o un film, ed essa viene riprodotta in un video o con qualsiasi altra forma di comunicazione da parte di un terzo, quest’ultimo non potrà vantare alcun diritto su tale atto di riproduzione, salvo che esso costituisca una creazione intellettuale autonoma dell’autore e proteggibile come tale;
  • Articolo 15: introduzione di un nuovo diritto connesso a favore degli editori di pubblicazioni giornalistiche in ragione del quale gli stessi dovranno essere remunerati per lo sfruttamento online (riproduzione e messa a disposizione del pubblico) di tali pubblicazioni da parte delle piattaforme digitali, come ad. es. Google, Bing, Yahoo; il medesimo articolo prevede inoltre l’obbligo degli stessi editori di corrispondere una quota ragionevole dei proventi realizzati in favore degli autori delle pubblicazioni. Proprio tale equa remunerazione ha suscitato non poche perplessità e ciò in quanto il decreto in esame invece di limitarsi a prevedere il diritto degli editori di negoziare una remunerazione (come previsto dal testo della Direttiva), ha previsto l’obbligo di negoziare un equo compenso in tal senso. Peraltro, è stato previsto che qualora le parti in questione non riescano a trovare un accordo sul punto, sarà l’AGCOM (Autorità per le garanzie nelle comunicazioni) a fungere da “arbitro” nell’individuazione di tale compenso;
  • Articolo 17: obbligo dei servizi di condivisione di contenuti online, come Facebook, YouTube, Telegram, di ottenere da parte dei titolari dei diritti l’autorizzazione alla diffusione di contenuti protetti sulle loro piattaforme. I servizi di condivisione saranno dunque responsabili in prima persona per le violazioni dei diritti d’autore commesse attraverso le proprie piattaforme, a meno che non dimostrino di aver ottenuto l’autorizzazione da parte dei titolari dei diritti alla diffusione delle opere protette o quantomeno di aver compiuto “best efforts” per ottenerla o per rimuovere i contenuti non autorizzati.

L’utilizzo del termine “best efforts” per valutare se la condotta delle piattaforme sia sanzionabile o meno creerà certamente diversi problemi soprattutto di natura interpretativa; per il momento questo termine è stato tradotto nel decreto in esame come l’obbligo di adottare i “massimi sforzi”, con ciò prediligendo un’interpretazione estensiva e quantitativa dello stesso che impone e richiede quindi un maggiore sforzo e controllo da parte delle piattaforme;

  • Articolo 17: introduzione di meccanismi di reclamo e di ricorso celere per gli utenti qualora sorgano controversie in merito alla rimozione dei contenuti o alla disabilitazione degli account da parte delle piattaforme, così come obblighi informativi a carico delle piattaforme stesse in merito ai presupposti e condizioni per la rimozione dei contenuti caricati.

Le novità elencate sopra costituiscono senza dubbio una grande sfida e ciò in virtù degli interessi economici coinvolti nella questione. L’obiettivo della direttiva è certamente coraggioso ed infatti essa si propone di cambiare le regole del gioco al fine di ridistribuire il valore generato dall’attività delle piattaforme e “restituirlo” ai creatori e autori dei contenuti.

Sotto questo profilo, l’obbligo degli editori di accordarsi con le grandi piattaforme di aggregazione di informazioni come Google per ottenere un compenso per l’utilizzo delle proprie pubblicazioni è una modifica legislativa storica, ma che rischia di sancire la predominanza dei poli editoriali che posseggono le risorse economiche per sostenere tale negoziazione. Tale squilibrio risulta ancor più accentuato se si considera che l’art. 1, c. I,  lett. b 8) del decreto identifica tra i criteri di quantificazione di tale compenso quelli del maggior numero di visualizzazioni o la notorietà dell’editore stesso.

Del pari rilevante è la previsione del “massimo sforzo” a carico delle piattaforme di condivisione nella rimozione dei contenuti illeciti caricati dagli utenti. Tuttavia, la scelta da parte del legislatore italiano di preferire il criterio quantitativo nella traduzione del termine “best efforts”, che sembra far riferimento al numero e alla pervasività dei controlli effettuati, non può che far presagire un rischio di rimozione indiscriminata di contenuti da parte di algoritmi di rilevazione estremamente “sensibili”, ciò che di certo contrasta con uno degli obiettivi dichiarati dalla direttiva, ovvero quello di preservare il diritto di critica e satira degli utenti. Si sarebbe viceversa potuta adottare un’interpretazione “qualitativa” di tale obbligo e cioè di un “miglior sforzo” da parte delle piattaforme, vale a dire proporzionato alla gravità delle violazioni e alla loro diffusione.

La scelta del Governo italiano di discostarsi in parte dal testo – e dallo spirito – della direttiva è stata perciò oggetto di un lungo dibattito tanto da aver sollevato in più di un soggetto il dubbio di un eccesso di delega o del c.d. “gold plating”, vale a dire il fenomeno per cui il legislatore nazionale si spinge al di là di quanto richiesto dalla normativa europea, pur mantenendosi formalmente all’interno del perimetro della propria discrezionalità.

Si auspica tuttavia che nella versione definitiva del decreto il legislatore italiano ponga maggiore attenzione alla finalità di armonizzazione che tutte le direttive europee perseguono, circostanza che impone nel caso in esame di adottare e definire un “approccio europeo” comune al diritto d’autore digitale dei prossimi anni. Tale approccio consentirà infatti ai singoli Paesi dell’Unione di poter poi efficacemente interloquire con i c.d. “giganti del web” e finalmente assumere contro quest’ultimi una posizione di forza (che ad oggi è mancata del tutto).


I segreti commerciali: convergenza fra Europa e Stati Uniti a seguito dei recenti interventi normativi

  1. Introduzione

In Italia sino all’anno 2018 si parlava di “informazioni riservate” per identificare quella serie di nozioni e informazioni custodite segretamente dall’azienda proprietaria in virtù del loro intrinseco valore economico. Successivamente è intervenuto il Decreto Legislativo 11 maggio 2018, n. 63 che, tra le altre cose, ha modificato l’art. 98 del Codice di proprietà industriale (di seguito “c.p.i.”) sostituendo tale espressione con quella già citata di “segreto commerciale” attualmente in vigore.

La riforma del c.p.i. è stata necessaria per effetto del recepimento nel nostro Paese della Direttiva (UE) 2016/943 del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’8 giugno 2016 sulla protezione del know-how riservato e delle informazioni commerciali riservate (segreti commerciali) contro l’illecita acquisizione, utilizzo e divulgazione degli stessi.

Il tema dei segreti commerciali è altamente rilevante per numerosissime realtà imprenditoriali che in alcuni casi fondano interamente il proprio successo commerciale su tali asset intellettuali. Si pensi ad esempio alla Coca Cola, un prodotto che ha riscosso un grande successo anche grazie alla strategia messa in atto dalla proprietaria della relativa ricetta – la società statunitense The Coca Cola Company – che ha scelto di mantenere segreta la formula di tale bevanda creata dal farmacista John Pemberton nel lontano 1886 (fatti salvi ovviamente gli innumerevoli tentativi di reverse engineering susseguitisi negli ultimi 134 anni). La ricetta della Coca Cola è certamente qualificabile come “segreto commerciale” e viene spesso citata dagli esperti del settore quale esempio virtuoso di know how aziendale.

In tal senso la direttiva europea assume fondamentale importanza nel panorama europeo dei diritti di proprietà industriale poiché mira ad armonizzare le disparate leggi sui segreti commerciali vigenti nei vari Stati Membri dell’Unione Europea.

Contemporaneamente è entrata in vigore negli Stati Uniti d’America il Defend Trade Secrets Act, firmato dall’allora Presidente Barack Obama in data 11 maggio 2016. L’atto legislativo americano si propone in particolare di rafforzare la tutela dei segreti commerciali sul piano federale, posto che la maggior parte dei singoli stati federati americani già aveva recepito le norme contenute nel Uniform Trade Secrets Act del 1979 (i.e. un modello di atto legislativo che ha sostanzialmente codificato i principi della common law statunitense in materia di segreti commerciali).

Fra la citata direttiva europea e l’impianto normativo statunitense vi sono una serie di analogie – sinteticamente descritte qui di seguito – che consentono di affermare che vi è stato un sostanziale allineamento fra Europa e Stati Uniti sul tema dei segreti commerciali.

 

  1. Similitudini e analogie fra i due sistemi normativi

Consideriamo in primo luogo la definizione di “segreto commerciale” secondo la direttiva europea e la legge statunitense:

 

Articolo 2 della direttiva (UE) 2016/943

Ai fini della presente direttiva si intende per:

1) “segreto commerciale”, informazioni che soddisfano tutti i seguenti requisiti:

a) sono segrete nel senso che non sono, nel loro insieme o nella precisa configurazione e combinazione dei loro elementi, generalmente note o facilmente accessibili a persone che normalmente si occupano del tipo di informazioni in questione;

b) hanno valore commerciale in quanto segrete;

c) sono state sottoposte a misure ragionevoli, secondo le circostanze, da parte della persone al cui legittimo controllo sono soggette, a mantenerle segrete”.

 

 

Defend Trade Secrets Act

(18 U.S. Code § 1839)

The term “trade secret” means all forms and types of financial, business, scientific, technical, economic, or engineering information … whether tangible or intangible, and whether or how stored, compiled, or memorialized physically, electronically, graphically, photographically, or in writing if:

(A) the owner thereof has taken reasonable measures to keep such information secret; and

(B) the information derives independent economic value, actual or potential, from not being generally known to, and not being readily ascertainable through proper means by, another person who can obtain economic value from the disclosure or use of the information”.

 

Come si può agevolmente apprezzare, entrambe le definizioni sopra riportate individuano i medesimi elementi costitutivi di un segreto commerciale. In particolare, sia la definizione europea sia quella statunitense stabiliscono che un segreto commerciale ha ad oggetto informazioni (ivi compresi dati, documenti, ecc.) che rispettano i seguenti i requisiti:

  • segretezza, atteso che le informazioni in questione non devono essere ordinariamente trattate da soggetti che operano nel settore di riferimento;
  • valore economico, posto che le informazioni devono essere suscettibili di quantificazione economica (vale a dire che l’azienda titolare abbia investito significative risorse economiche in tali informazioni);
  • assoggettamento a misure di protezione, poiché senza tali misure la segretezza delle informazioni verrebbe meno.

Non bisogna tuttavia ignorare talune differenze riscontrabili fra le definizioni poc’anzi citate.

Ad esempio, in relazione al requisito della segretezza (punto 1 di cui sopra), la direttiva europea prevede che le informazioni in questione non siano “note o facilmente accessibili a persone che normalmente si occupano del tipo di informazioni in questione”, laddove invece la norma statunitense prevede che le informazioni non siano conosciute ovvero conoscibili “by, another person who can obtain economic value from the disclosure or use of the information”.

Sul punto il Transatlantic Business Council[1] (in un report consultabile cliccando qui) ha concluso affermando che tale differenza è priva di conseguenze sul piano pratico atteso che la figura presa in esame dalle rispettive norme sarebbe sostanzialmente analoga ed infatti: “A person who can obtain economic value from the information’s disclosure or use (US-DTSA) generally also will be a person within the circles that normally deal with the kind of information in question (EU-TSD), and vice versa” (cfr. pag. 5).

Simili considerazioni possono a nostro avviso essere spese anche con riguardo alle ulteriori minime differenze[2] riscontrabili nelle definizioni a raffronto che – malgrado utilizzino a volte termini apparentemente differenti – condividono il medesimo significato di nozione di “segreto commerciale”.

Oltre alle definizioni di cui sopra, tra i due sistemi normativi in questione vi sono ulteriori  punti di convergenza, come ha avuto di evidenziare anche la Camera di Commercio Internazionale in un suo report sul tema (reperibile cliccando qui), ed in particolare a titolo esemplificativo e non esaustivo:

  1. “acquisizione, utilizzo e divulgazione illeciti” di segreti commerciali nel diritto europeo (articolo 4 della citata direttiva) sono categorie giuridiche altresì presenti nel diritto statunitense (18 U.S.C. § 1839, co. 5);
  2. entrambi i sistemi normativi tutelano il reverse engineering e l’independent discovery (cfr. direttiva europea, art. 3, e 18 U.S.C. § 1839, comma 5);
  3. in merito alle attività di cd. “whistleblowing” (i.e. segnalazioni anonime aventi ad oggetto condotte illecite) sia la direttiva europea (art. 5, lett. b)) sia la legge statunitense (18 U.S.C. § 1833, comma 2) chiariscono che non commette un illecito chi rivela un segreto commerciale qualora ciò sia necessario per segnalare alle autorità una condotta scorretta da parte del titolare del segreto commerciale;
  4. entrambi i sistemi normativi configurano in capo al giudice il potere cautelare di inibire l’abusiva diffusione di segreti commerciali (si vedano in particolare gli artt. 10, co. I e 12, co. I della direttiva europea, nonché 18 U.S.C. §1836 (b)(3)(A)(ii) negli Stati Uniti) e di sequestrare beni prodotti in violazione di tali segreti (cfr. art. 10, co. I della direttiva europea, e 18 U.S.C. § 1836 (b)(2)).

Va nondimeno ribadito che sussistono alcune differenze fra il sistema normativo europeo e statunitense in tema di know how; si pensi ad esempio alla natura giuridica del segreto commerciale, trattato come un vero e proprio diritto di proprietà industriale nella legge statunitense ma non in quella europea (come peraltro confermato anche dalla Commissione Europea che continua ad affermare “trade secrets are not a form of exclusive intellectual property right”)[3].

Tuttavia, come detto, tali differenze non sembrano in grado di tracciare un significativo solco fra la disciplina europea e statunitense in tema di protezione dei segreti commerciali.

 

  1. Conclusioni e rilevanza (opportunità?) per l’Italia

Sulla base delle considerazioni svolte sopra è a nostro avviso ragionevole affermare che sussiste un sostanziale allineamento in tema di segreti commerciali fra l’impianto normativo dell’Unione Europea, codificato nella Direttiva (UE) 2016/943, e quello degli Stati Uniti d’America così come risulta dagli atti legislativi (in particolare il Defend Trade Secrets Act del 2016).

Questo allineamento – che rientra in un più ampio progetto di armonizzazione delle norme di proprietà intellettuale – si propone evidentemente di incoraggiare l’investitore straniero (nella specie statunitense) a collaborare con aziende europee, potendo egli operare nella ragionevole certezza di ottenere dal sistema normativo europeo una tutela dei suoi segreti commerciali analoga a quella offerta dal sistema statunitense che già conosce. E viceversa lo stesso dicasi per l’investitore europeo orientato verso il mercato USA.

Tutto questo può rappresentare di certo un’opportunità per l’Italia che è notoriamente una grande potenza europea manifatturiera, nonché un paese culturalmente più di altri orientato alla creatività e sperimentazione (cioè l’essenza della ricerca e dello sviluppo e dove quindi i segreti commerciali hanno una certa rilevanza) sia in campo artistico che scientifico.

Se dunque l’Italia saprà nel tempo valorizzare il proprio patrimonio intellettuale ed il proprio know how, riteniamo che sarà fra i Paesi europei che più di altri potrà beneficiare di questo allineamento fra le leggi europee e statunitensi relative ai segreti commerciali, incrementando sempre più le sue relazioni con partner commerciali d’oltreoceano.

In caso contrario, ci troveremo di fronte all’ennesima opportunità sprecata.

 

__________

[1] Il Transatlantic Business Council è un’associazione impegnata nella promozione di una maggiore integrazione economica e di un rafforzamento dei legami politici fra Europa e Stati Uniti.

[2] Altre differenze individuabili secondo il Transatlantic Business Council nelle definizioni in questione: a) l’Act statunitense precisa che le informazioni sono segrete in quanto non accessibili “through proper means”, mentre la direttiva europea non include questa formulazione nella sua definizione preferendo invece definire separatamente (all’art. 3 della stessa direttiva) l’acquisizione lecita di un segreto commerciale; b) la direttiva europea tutela i segreti commerciali anche “nella precisa configurazione e combinazione dei loro elementi”, con ciò lasciando intendere che il complesso di informazioni è protetto anche qualora le singole componenti non siano segrete; tale formulazione è assente nella specifica definizione del Defend Trade Secrets Act, tuttavia, la tutela delle combinazioni di informazioni è consolidata nella common law statunitense.

[3] Per ulteriormente riferimenti si veda il sito della Commissione Europea cliccando qui.