Il percorso che sta portando all’attuazione della direttiva Copyright è stato lungo e pieno di battute d’arresto. Infatti, solo lo scorso 6 agosto, con due mesi di ritardo rispetto al termine ultimo fissato dalla stessa direttiva, il Consiglio dei Ministri ha approvato la bozza di Decreto Legislativo di attuazione della medesima, ora nuovamente al vaglio del Parlamento.
Uno degli elementi che ha contribuito a rallentare l’iter legislativo di questo nuovo testo è l’obiettivo che la direttiva si propone di perseguire, vale a dire quello di riequilibrare i rapporti, da un lato, tra le grandi piattaforme digitali che diffondono e aggregano contenuti creativi e, dall’altro, quelli tra produttori, autori ed esecutori di tali contenuti.
In questa prospettiva sono state quindi introdotte diverse novità, qui di seguito elencate, che hanno suscitato non poche perplessità:
- Articolo 13: creazione di un organismo imparziale che assista i creatori di opere audiovisive nella negoziazione di accordi di licenza con le piattaforme di servizi video on demand (come Netflix, Prime Video, Disney Plus, etc.). Si tratta quindi di uno strumento a protezione degli autori e dei loro diritti che ha quale unico scopo quello di limitare l’enorme potere negoziale che le piattaforme digitali sfruttano a proprio vantaggio nei confronti di tali soggetti;
- Articolo 14: libero utilizzo degli atti di riproduzione di opere delle arti visive che siano divenute di dominio pubblico poiché risulta scaduta la protezione del diritto d’autore. In buona sostanza, se cade in pubblico dominio un’opera delle arti visive, come ad esempio un quadro o un film, ed essa viene riprodotta in un video o con qualsiasi altra forma di comunicazione da parte di un terzo, quest’ultimo non potrà vantare alcun diritto su tale atto di riproduzione, salvo che esso costituisca una creazione intellettuale autonoma dell’autore e proteggibile come tale;
- Articolo 15: introduzione di un nuovo diritto connesso a favore degli editori di pubblicazioni giornalistiche in ragione del quale gli stessi dovranno essere remunerati per lo sfruttamento online (riproduzione e messa a disposizione del pubblico) di tali pubblicazioni da parte delle piattaforme digitali, come ad. es. Google, Bing, Yahoo; il medesimo articolo prevede inoltre l’obbligo degli stessi editori di corrispondere una quota ragionevole dei proventi realizzati in favore degli autori delle pubblicazioni. Proprio tale equa remunerazione ha suscitato non poche perplessità e ciò in quanto il decreto in esame invece di limitarsi a prevedere il diritto degli editori di negoziare una remunerazione (come previsto dal testo della Direttiva), ha previsto l’obbligo di negoziare un equo compenso in tal senso. Peraltro, è stato previsto che qualora le parti in questione non riescano a trovare un accordo sul punto, sarà l’AGCOM (Autorità per le garanzie nelle comunicazioni) a fungere da “arbitro” nell’individuazione di tale compenso;
- Articolo 17: obbligo dei servizi di condivisione di contenuti online, come Facebook, YouTube, Telegram, di ottenere da parte dei titolari dei diritti l’autorizzazione alla diffusione di contenuti protetti sulle loro piattaforme. I servizi di condivisione saranno dunque responsabili in prima persona per le violazioni dei diritti d’autore commesse attraverso le proprie piattaforme, a meno che non dimostrino di aver ottenuto l’autorizzazione da parte dei titolari dei diritti alla diffusione delle opere protette o quantomeno di aver compiuto “best efforts” per ottenerla o per rimuovere i contenuti non autorizzati.
L’utilizzo del termine “best efforts” per valutare se la condotta delle piattaforme sia sanzionabile o meno creerà certamente diversi problemi soprattutto di natura interpretativa; per il momento questo termine è stato tradotto nel decreto in esame come l’obbligo di adottare i “massimi sforzi”, con ciò prediligendo un’interpretazione estensiva e quantitativa dello stesso che impone e richiede quindi un maggiore sforzo e controllo da parte delle piattaforme;
- Articolo 17: introduzione di meccanismi di reclamo e di ricorso celere per gli utenti qualora sorgano controversie in merito alla rimozione dei contenuti o alla disabilitazione degli account da parte delle piattaforme, così come obblighi informativi a carico delle piattaforme stesse in merito ai presupposti e condizioni per la rimozione dei contenuti caricati.
Le novità elencate sopra costituiscono senza dubbio una grande sfida e ciò in virtù degli interessi economici coinvolti nella questione. L’obiettivo della direttiva è certamente coraggioso ed infatti essa si propone di cambiare le regole del gioco al fine di ridistribuire il valore generato dall’attività delle piattaforme e “restituirlo” ai creatori e autori dei contenuti.
Sotto questo profilo, l’obbligo degli editori di accordarsi con le grandi piattaforme di aggregazione di informazioni come Google per ottenere un compenso per l’utilizzo delle proprie pubblicazioni è una modifica legislativa storica, ma che rischia di sancire la predominanza dei poli editoriali che posseggono le risorse economiche per sostenere tale negoziazione. Tale squilibrio risulta ancor più accentuato se si considera che l’art. 1, c. I, lett. b 8) del decreto identifica tra i criteri di quantificazione di tale compenso quelli del maggior numero di visualizzazioni o la notorietà dell’editore stesso.
Del pari rilevante è la previsione del “massimo sforzo” a carico delle piattaforme di condivisione nella rimozione dei contenuti illeciti caricati dagli utenti. Tuttavia, la scelta da parte del legislatore italiano di preferire il criterio quantitativo nella traduzione del termine “best efforts”, che sembra far riferimento al numero e alla pervasività dei controlli effettuati, non può che far presagire un rischio di rimozione indiscriminata di contenuti da parte di algoritmi di rilevazione estremamente “sensibili”, ciò che di certo contrasta con uno degli obiettivi dichiarati dalla direttiva, ovvero quello di preservare il diritto di critica e satira degli utenti. Si sarebbe viceversa potuta adottare un’interpretazione “qualitativa” di tale obbligo e cioè di un “miglior sforzo” da parte delle piattaforme, vale a dire proporzionato alla gravità delle violazioni e alla loro diffusione.
La scelta del Governo italiano di discostarsi in parte dal testo – e dallo spirito – della direttiva è stata perciò oggetto di un lungo dibattito tanto da aver sollevato in più di un soggetto il dubbio di un eccesso di delega o del c.d. “gold plating”, vale a dire il fenomeno per cui il legislatore nazionale si spinge al di là di quanto richiesto dalla normativa europea, pur mantenendosi formalmente all’interno del perimetro della propria discrezionalità.
Si auspica tuttavia che nella versione definitiva del decreto il legislatore italiano ponga maggiore attenzione alla finalità di armonizzazione che tutte le direttive europee perseguono, circostanza che impone nel caso in esame di adottare e definire un “approccio europeo” comune al diritto d’autore digitale dei prossimi anni. Tale approccio consentirà infatti ai singoli Paesi dell’Unione di poter poi efficacemente interloquire con i c.d. “giganti del web” e finalmente assumere contro quest’ultimi una posizione di forza (che ad oggi è mancata del tutto).